Like a tiny whisper, like a distant shore
Coming out from nowhere, from millions years ago
I never felt like this before, sea lions under the sun
Shapes and colors from heaven, melting into one
(The Earth Before Us – Porcelain Raft)
Natalia Ginzburg divideva i viaggiatori in due tipologie: quelli che sanno viaggiare e i viaggiatori maldestri. “Microclimate” è il nuovo album vellutato di Porcelain Raft ma anche un viaggio che intraprendiamo come viaggiatori maldestri, cercando in luoghi nuovi e sconosciuti la possibilità di abitarli come se fosse per sempre, e di trasformare la meta di un viaggio in una dimora perenne.
Mauro Remiddi ci fa vedere i posti di cui parla, ci fornisce le coordinate geografiche necessarie a rendere quei posti familiari, e in un attimo ci sentiamo pervasi dalla sensazione vertiginosa di aver pensato la nostra esistenza in un punto diverso dal suo punto consueto. I viaggiatori maldestri sono quelli che provano a sentirsi a casa anche fuori di casa, che cercano qualcosa di familiare nella torta al limone mangiata a colazione, nelle coperte rimboccate sotto il mento, nella frutta che vendono i pakistani nei negozi aperti 24h. Sono uccelli migratori che non vedono l’ora di costruirsi il nido.
Ogni brano di “Microclimate” è uno spazio vastissimo, un territorio che si espande ad ogni riverbero senza darci la possibilità di conoscerne la fine se non fidandoci dell’orizzonte. E ogni brano – come ci suggerisce il titolo – ha il suo microclima che lo differenzia e separa dagli altri. In Distant Shore, ad esempio, si sente il vento tiepido e io vorrei avere addosso una gonna per girare e sentirmi levitare, tenere le braccia nude piegate come manici d’anfora, catturare tutti gli sguardi attorno grazie ai movimenti leggeri causati dall’aria e dal mio corpo che gira sul posto – la leggerezza è un’irresistibile tentazione.
Appena parte Big Sur la sequenza degli accordi mi stira le pieghe della gonna sotto le mani, mi riprendo, mi appartengo di nuovo, come di ritorno da un posto distante. Un posto che da viaggiatrice maldestra ho scambiato per casa. La voce di Mauro implora una persona (sconosciuta) di venire “to another world” –e se fossi in questa persona risponderei sì, lo voglio, con la stessa convinzione e determinazione che si usa in una cerimonia, rassicurata dal futuro “before you know it / all the answers are by the way”.
Me ne vado da Big Sur, mi lascio alle spalle le montagne che scivolano nel mare, con due accordi pesanti inizia Rolling Over e mi perdo di nuovo, perché la vita non è altro che questo – perdersi e ritrovarsi– e questo disco non è altro che il suono della vita stessa. Porcelain Raft come sempre riesce a mantenersi in equilibrio perfetto tra il guardare fuori (l’ambient, l’elettronica, lo spazio cosmico del dreampop) e il guardarsi dentro (il suo cantautorato introspettivo).
Ogni traccia è uno spazio aperto, plasmato attraverso una palette di suoni minimalisti armonizzati magicamente tra loro, un paesaggio creato attraverso l’udito e che si realizza attraverso i pensieri, una foto panoramica scattata ad occhi chiusi.
Rimango così: seduta vicino alla finestra con lo sguardo sospeso nel tempo, le labbra ferme e fredde di una statua, i muscoli tesi come dopo una gara. Sono pronta a giurarvi che alla fine sarà impossibile anche per voi non avere nostalgia di tutti questi posti, anche se non ci siete mai stati.
We are falling… falling into the sun
(Zero Frames Per Second – Porcelain Raft)