Fa Niente è un disco avversativo.
Fa Niente ma non è vero che non fa niente, non è vero che non era importante.
Fa Niente perché è bello raccontarselo qualche volta. Perché è l’alibi per non litigare, per dire che va tutto bene, nonostante quel malumore trattenuto a doppio nodo in gola, da mandar giù con l’acqua minerale.
Fa Niente è un disco oppositivo.
Un linguaggio costruito su una dicotomia di tipo restrittivo, limitativo – sei tu / oppure sono io – in cui non siamo mai insieme, mai uno e poi l’altro o noi che siamo di fronte, ma io – o – tu.
Esclusione e mai inclusione.
Fa Niente è un disco disgiuntivo, dove la disgiunzione è sempre una seconda possibilità, la risoluzione verbale all’indecisione, il paracadute che sorvola il futuro, piuttosto che atterrarci con determinazione.
Nel disco di Giorgio Poi ci si ritrova esposti, ma non ci si espone mai. Ci si fa camminare sul cuore, si lascia fare agli altri perché mettersi a decidere ci fa cadere in un groviglio da cui è difficile venire a capo.
E le poche volte in cui l’azione trova spazio, l’accompagna il pentimento. Che si tratti del dentifricio blu, di un cuscino o dell’andare in montagna quando invece si aveva voglia di nuotare.
E allora che fare? Niente.
Fa Niente ci lascia guardare da fuori, andare pur restando fermi.
Fa Niente è un complemento di moto a luogo che resta potenza e non si fa mai atto: le parole che rimangono fra i denti, io che ti guardo prendere un’altra direzione, che domani andiamo a vivere sul mare, ma resto lì a guardarlo perché “è bello da guardare”, le valigie che non viaggiano, i pensieri che sfumano nella macchina friggitrice, una dichiarazione di guerra che ha paura di far la guerra.
Una geografia di aree di sosta, più che di stazioni aeree.
Fa Niente è Giorgio Poi che guarda l’Italia attraverso La Manica, che ascolta Dalla, Vasco e Battisti con la nostalgia di chi torna alle sue origini.
Che va in Messico e torna all’italiano. Col paracadute.