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Come in uno specchio / Dirty Projectors

Siate sinceri: voi scommettereste su un amore? Non è forse una follia grande come una casa?

Eppure lo diceva Amy Winehouse: l’amore è un gioco in cui si perde, un gioco tragicamente segnato dalla prima scintilla. Sciocco è colui che vuole sapere come andrà a finire – e lo vuole sapere senza ipotesi, con una certezza assoluta che sfiora il razionalismo cartesiano. Non resta che giocare al rialzo, puntare tutto, raddrizzare il tiro.

E’ un po’ quello che ha fatto Dave Longstreth, mastermind del progetto Dirty Projectors, nell’album omonimo Dirty Projectors. Reinventarsi, mescolare le carte e proiettarsi – verbo per niente casuale – in un territorio vergine. Se le parole esistono per essere usate, possiamo affermare senza mezzi termini che questo disco è un capolavoro da un punto di vista dell’innovazione, della tecnica compositiva, dei suoni, della produzione, delle linee e delle armonie vocali. Ma non voglio cavarmela così.

Dirty Projectors è anche un album profondamente concettuale. Nasce da una storia d’amore finita, quella tra Longstreth e Amber Coffman, per anni voce della combo Dirty Projectors. Di canzone in canzone, la loro relazione e comunione d’intenti viene ricordata, celebrata, sminuzzata. Dirty Projectors, oltre ad essere un disco dalla straordinaria portata musicale, è un vero e proprio percorso d’analisi che trova il suo punto d’inizio e di fine nel senso di perdita e, capovolgendo la formula matrimoniale, “nel dolore e nella gioia”.

illustrazione di Mistobosco

1. Maybe love is a competition

Esiste una teoria dei giochi matematici che mi affascina da sempre. Protagoniste le due parti, soggetti rivali, mentre si studiano. L’azione dell’uno determinerà inevitabilmente la mossa dell’altro. E’ una partita a scacchi, una strategia, una competizione. E, cosa ancora più terrificante, presuppone una capacità di equilibrio che si gioca sul filo del rasoio.

Ecco spiegato in breve il gioco a somma zero: il guadagno o la perdita di un partecipante corrisponde alla perdita o al guadagno dell’altro. E’ un gioco di bilanciamenti con cui in passato si è provato a raccontare il clima di sottile equilibrio della Guerra Fredda. Applicato alle relazioni umane, il gioco a somma zero diventa un silenzioso massacro in cui non emerge mai un vero e proprio vincitore. Perché se l’amore diventa scienza militare, agitato da ambizioni, desideri di rivalsa e visioni dissonanti, allora sono entrambe le parti in modo uguale a uscirne con le ossa rotte.

David Longstreth lo sa bene e cristallizza questo pensiero nei brani Work Together e Winner Take Nothing. Nel primo canta che maybe love is competition that makes us raise the bar/We better ourselves, a testimoniare la posta in gioco altissima del suo rapporto con Amber. Nel secondo brano vengono presentate le due ipotesi: nel caso di vittoria, entrambi avrebbero vinto (And as much as I’d like to say we both won/That we’ve grown together and bettered each other); tuttavia, come si è davvero verificato, le strade si sono divise. La metafora del gioco e della scommessa trova eco sia nell’espressione throw the dice (tirare il dado) che nel verso, bellissimo, in losing you, I lost myself.

2. We. You. Me.

C’è un tema incredibilmente potente in Dirty Projectors – e non è solo una storia d’amore finita. Che sia un qualcosa a cui Longstreth vuole dare un ruolo primario, beh, basta dare un’occhiata alla copertina: uno specchio che riprende la forma dei due cerchi di Bitte Orca, album dei Projectors del 2009 (quello con Stillness is the Move e Two Doves, per intenderci). Il tema del rapporto speculare percorre almeno tre elementi fondamentali:

  • la struttura della tracklist. La prima traccia Keep Your Name trova una controparte ideale nell’ultima canzone, I See You, da un punto di vista musicale (l’organo nuziale) che nel rovesciamento del we don’t see eye to eye in I see you;
  • le liriche dei brani. In tutte le canzoni troviamo delle frasi “palindrome” in cui l’io e il tu vengono messi sullo stesso piano ed equiparati: Cause you and me are the same, Killing me/killing you e In losing you/I lost myself (contenute in Winner take nothing); I become you/you become me (qui siamo a Ascent through clouds); o ancora I know you and you know me (nella conclusiva I See You)
  • il significato simbolico dello specchio

Il tema speculare è ovviamente legato all’immagine del doppio, di quello che in lingua inglese si esprime con un termine ai miei occhi pazzesco: il significant other, che in italiano rendiamo con “dolce metà” ma che nell’originale mantiene quella bellissima connotazione di doppio, dell’altro, dell’immagine riflessa. Ma non una delle tante immagini: Amber era per Dave la proiezione colma di significato, piena di senso, quella per cui valeva la pena davvero mettersi in gioco – ed eventualmente perdere, piombando in una caduta a capofitto.

Lo canta in Up in Hudson: “So our lives were twined and curled and mixed up like the code we obeyed”. Eccola la totale aderenza speculare in cui i contorni dell’uno e dell’altro rischiano di perdersi, la little bubble di amore e gioia (d’altronde, cos’è una coppia se non una fiera affermazione del “noi siamo quella cosa lì”?). Ancor più interessante è notare come il processo di perdita e di divisione sia raccontato con un meccanismo simile (ma capovolto) al tema dello specchio, ovvero quello della contrapposizione dualistica TU/IO. Prendiamo l’iniziale Keep Your Name, esempio perfetto di come la separazione sia testimoniata dal passaggio dal plurale we delle prime strofe al I vs. you degli versi successivi. E’ una delle tante asserzioni di stampo manicheo che troviamo nel disco: da una parte l’irremovibile io, dall’altra, ben distante, il tu.

Leggiamo quindi:

  • But it’s the end, we’re enemies, not friends (siamo in Death Spiral);
  • Now I’m shining like tears in the rain/and you’re shining like fifteen of fame (contenuta in Winner Take Nothing);
  • You always hurried to grow up/I think I’ll always just feel the same/what I want from art is truth/what you want is fame (sempre Keep Your Name);
  • Now we’re going our separate ways […]/Now I’m listening to Kanye on the Taconic Parkway/ And you’re out in Echo Park, blasting 2Pac […] (il racconto-fiume di Up in Hudson);

E’ un attimo e pare di sentire Due Mondi di Battisti. Tuttavia, per quanto Dave faccia di tutto per tenere ben separati l’io e il tu, i versi sopra citati non fanno altro che avvicinarli, paragonarli, metterli in correlazione. Succede così quando la divisione tra due persone, come per le frazioni, avviene con un altissimo denominatore comune. Provateci voi, a dividerli. Ci vuole tempo. Perché c’è troppo di te ancora in me.

3. I see you

Adesso noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; allora vedremo faccia a faccia.

Scriveva così Paolo nella lettera ai Corinzi, popolazione particolarmente conosciuta per la produzione e la lavorazioni di specchi – originariamente fatti di ottone rispetto a quelli moderni in vetro. L’immagine che rifletteva lo specchio d’ottone non era distinta, bensì dai contorni poco chiari (scrive Longstreth in Little Bubble: like the days they refract, blurred and dull, empty and sad), come in un sogno, un mistero, un enigma. E’ questo il luogo in cui l’io e il tu, Dave e Amber, si mescolano nel ricordo.

Paolo scrive anche che questo stato è momentaneo e dura fino al momento in cui la rivelazione – lo svelamento e la conseguente meraviglia – appare in modo distinto, senza veli, ma faccia a faccia. Ecco cosa accade nelle ultime tre tracce di Dirty Projectors: un cambio di ritmo, una virata, un’illuminazione.

Prendiamo Ascent Through Clouds: è il brano della mutazione e della comprensione di sé (I am so myself, I am no one else) e dell’altro non più vissuto come un avversario (You are one who helped me and took my hand). Solamente capendo se stessi si può cogliere gli altri (last night I realized it’s been feeling wrong/to start relying, making decisions based on another person, canta infatti in Cool Your Heart); è proprio nella consapevolezza della perdita che riusciamo ad abbracciarne il vero significato: la perdita non solo come separazione di sé dall’altra persona, ma sopra ogni cosa ritrovamento di sé – in sé. L’ultima parte di Ascent Through Clouds suona come una preghiera a due voci. Un racconto ascetico fatto di solitudine, unione, amore e sofferenza, incontri e perdite:

Solitude becomes alienation

And leads you to togetherness

(The surrender to forgiveness

The happy acceptance of a kiss)

Forgiveness, need, apology

Redemption and surrendering

Strangers become friends

And then strangers again

(The river washing us away

Washing the garbage too and trash)

Dave si ricongiunge idealmente con Amber ma anche con un significant other che è l’universo e il senso di tutto. E ancora, soprattutto, si concilia con la propria immagine. Non è un caso che l’ultima traccia, a mo’ di chiusura del cerchio, si intitoli I See You.

I See You è la messa, la celebrazione, la gioia che segue la catarsi. Credetemi: bisogna davvero avere il cuore svuotato dalla rabbia per scrivere versi come And what held us together/Is what tears apart. E quindi non più risentimento, conflitto, contrapposizione. I See You è il momento della rappacificazione, della comprensione, della riconoscenza – e del riconoscersi. Come Paolo scriveva ai Corinzi: è il momento di vedersi in modo chiaro. Lo specchio di fronte a Dave gli restituisce un’immagine nuova, non più una proiezione dai bordi sfilacciati e cangianti. Vedere se stessi è vedere anche l’altro – comprenderlo.

Portarlo dentro di sé, in un abbraccio che scioglie ogni nodo.

Che sciacqua via tutto.

E come balsamo addolcisce le ferite.

In quell’abbraccio io mi vedo.

In quell’abbraccio io ti vedo.