Stephen Bruner, meglio conosciuto ai nostri lettori con lo pseudonimo di Thundercat, è l’incarnazione più emblematica dell’estetica Brainfeeder, la fortunata label statunitense fondata da Flying Lotus e fin dagli inizi casa del bassista e cantante losangelino. Sempre in bilico tra genialità e gusto per il grottesco, eccentricità e virtuosismo. Virtuosismo, il suo, dal volto umano però, mai fine a sé stesso, di sostanza più che espressione di superficiale esibizionismo, decisamente più al passo con i tempi che viviamo. Lo stesso che gli ha permesso negli anni di spalleggiare gli artisti più disparati pur restando riconoscibilissimo nel suo stile. A pensarci bene non sono molti i musicisti impostisi in epoca recente a potersi vantare di questo tipo di qualità. Questo ragionamento ci porta a questo suo nuovo terzo album intitolato, non a caso, “Drunk”. Lo stesso artista ha spiegato così il motivo di questa scelta:
“I’ve always tried to hold true to what Erykah Badu and Flying Lotus told me: It has to come from an honest place. I feel like it’s a place that I’ve been in different ways, seen different angles of and it’s been a bit inspirational – the drinking.”
Insomma un album-confessione nel quale l’autore descrive in maniera tragicomica le proprie (dis)avventure, reali o solo immaginate, conseguenza comunque diretta di stati di alterazione più o meno alcolica. Viste le premesse, e la lunga tracklist, il disco si preannuncia come un un affare senza capo né coda. Già da i primi ascolti però non è possibile non accorgersi di quanto siano immediati e godibili i brani in esso contenuti.
La struttura labirintica di “Drunk” viene esposta fin dal suo intro, un riferimento diretto ad “Alice Nel Paese Delle Meraviglie”, e nello specifico al fatidico e fatale ingresso all’interno nella tana del Coniglio Bianco, Rabbot Ho appunto. In maniera simile a quanto già fatto dal boss di scuderia FLylo nel suo “You’re Dead”, Thundercat sceglie di andare a prendere direttamente ispirazione dal lato oscuro della vita, dalle proprie ossessioni ed idiosincrasie, dalle sfighe e dagli sbattimenti quotidiani, dalle sue dipendenze -dall’alcol, dai video games, dai rapporti interpersonali- per dare vita ad un viaggio onirico, allucinatorio, tragicomico appunto. Di suo, il musicista virtuoso e onnivoro, ci mette una passione sfrenata per il soul e il jazz, per certo pop sofisticato e psichedelico. L’album è infatti disseminato di momenti attribuibili a mostri sacri del genere: dalle melodie barocche di un Todd Rundgren a cambi di accordi vertiginosi degni degli Steely Dan più arditi fino alla azzecatissima partecipazione di Michael McDonald e Kenny Loggins, due degli alfieri del blue eyed soul tra 70s ed 80s, nella sublime Show You The Way.
Sostanziali, anche se più prevedibili, contributi al disco li danno Kendrick Lamar e Wiz Khalifa -a contraccambiare probabilmente l’apporto dato da Bruner alle releases dei due rappers- e Pharrell Williams -forse come preludio ad una imminente o futura collaborazione. Tra uno skit ed uno svarione strumentale i brani di punta si susseguono: il già citato singolo apri-pista ma anche Friend Zone -storia di attrazione amorosa non richiesta e/o non ricambiata perversamente rilasciato il 14 Febbraio scorso, giorno di San Valentino, e prodotto da Mono/Polo- ed ancora le già edite Bus in The Streets -esilarante come dei Beach Boys sotto effetto di ecstasy- e Them Changes, che riassume bene i temi del disco, la vena dolce-amara del suo produttore e il suo gusto per il macabro:
“Nobody move, there’s blood on the floor
And I can’t find my heart!
Where did it go? Did I leave it in the cold?
…
Now I’m sitting here with a black hole in my chest
A heartless, broken mess”
Il viaggio si conclude con DUI ( “driving under the influence” termine con il quale viene denominato chi viene colto in flagrante mentre si trova al volante in stato di ebbrezza ndr.) e la ripresa delle melodia che ne ha segnato l’iniziale Rabbot Ho, e con l’amara constatazione:
“Bottom of the glass
At this point you’ve made an ass
And your friends will let you know tomorrow”
L’onestà con cui Thundercat si espone, la sua vulnerabilità, lo rendono ai nostri occhi ancora più autentico, credibile. Contemporaneamente la sua musica ha raggiunto livelli di sofisticazione e modernità intoccabili. Il suono del suo basso, sinuoso e liquido, è ormai marchio di fabbrica, il suo falsetto soulful distinguibilissimo dalle primissime battute delle sue canzoni. Non sappiamo cosa questa annata musicale appena iniziata ci riserverà, ma di certo sappiamo che uno dei dischi che la contraddistinguerà da qui a venire è già arrivato.