Scoprirsi è un evento, mi dice così Claudio Nigliazzo, in arte Christaux ma per tutti Clod, mentre passeggiamo per i giardini di Porta Venezia in un pomeriggio assolato. Il 28 Aprile esce il suo primo disco solista, Ecstasy, un disco da maneggiare con cura. 10 pezzi di pop mistico che suonano come un mistero caldo, indecifrabile eppure accessibile. Ecstasy giunge qualche anno dopo lo stop al progetto Iori’s eyes e un periodo di transizione in cui Clod è stato anche autore per Joan Thiele.
Dopo la pausa dagli Iori’s Eyes, mi racconta, è stato piuttosto naturale per me e Sofia trovare i nostri spazi e prendere coscienza, al di là della paura iniziale, di voler intraprendere delle strade individuali. Che è un grande passo.
Sapevi già che direzione avresti preso?
Senza dubbio da subito è stata chiara una cosa: volevo essere completamente me. Spesso mi chiedevo se stessi facendo la cosa giusta – addirittura ero pronto a non far uscire nessun pezzo. La parte più difficile è stata appunto trovare le persone giuste per realizzare il risultato che avevo in mente e per cui non potevano esistere vie di mezzo.
L’illuminazione è arrivata con Egomostro di Colapesce. Per quanto distante dal mio stile musicale, sono rimasto folgorato dalla sincerità e dalla qualità della produzione. Ho scoperto che il responsabile di quella meraviglia era Mario Conte, che aveva lavorato tra l’altro in Psychodelice di Meg, disco che ho letteralmente consumato. L’ho contattato e ci siamo trovati in sintonia sin da subito: Mario come produttore si concede poco, questo mi ha fatto sentire davvero come un eletto.
E lì, immagino, ti sei sentito rassicurato?
Sì. Mario mi ha fatto capire che non c’erano da fare enormi stravolgimenti di produzione. Mantenere intatto il messaggio che volevo trasmettere era una delle cose che più m’importava: quello che ha fatto Mario è stato potenziare e far esplodere il magma che ribolliva nella mia musica. Un’altra cosa che mi ha rassicurato è stato il costante confronto con Mario nella co-produzione: tutto questo ha portato ad un disco di cui sono pienamente soddisfatto – e non è una cosa da poco visto che arriva da tre anni di tormento e di continui quesiti sul partire o sul rimanere qui in Italia.
Credevi che qui ti saresti sentito costretto a fare quello che avevi in mente?
Avrei voluto partire per ritornare con una nuova visione. Anni fa provai a vivere a Manchester. Questa cosa mi ha aiutato a interrogarmi su come affrontare il viaggio. E’ una cosa che rimarco spesso: sono un eremita e faccio molta fatica a uscire dai miei spazi. Ne avevo appunto parlato in una canzone con gli Iori’s Eyes, si chiamava All the People Outside are Killing my Feelings: le fragilità che riescono a diventare super-poteri.
Che è poi quello che hai fatto in questo disco, Ecstasy, auto-analisi allo stato puro. Prendiamo Human, ad esempio, una canzone con un tiro super-pop e catchy e un ritornello potentissimo. La cosa sorprendente è che suona trattenutissima a livello ritmico per tre quarti della durata. Prima pare un’implorazione, una preghiera col cuore in mano, poi si scioglie in un finale che sa di accettazione e assoluzione.
È una descrizione perfetta.
Ma non solo Human. Tutto il disco è permeato da una tensione che si percepisce tra le maglie dei suoni. Un’atmosfera sacra, calda e sensuale.
Sono d’accordo. La sacralità di stampo mistico nasce dal mio interessamento nei confronti di iconografie religiose, soprattutto cristiane, in cui spesso trovo un senso di mistero, una disperazione che è anche luce. Toccare il fondo, il buio più buio – e poi non far altro che risalire. Sembra un discorso retorico eppure a volte la retorica, ragionando per immagini, descrive perfettamente alcune situazioni.
Da qui la mia passione per Arvo Pärt, Bjork e Kate Bush, per me dee scese in terra, insieme alla completa adorazione per Kurt Cobain e Beach House. Ecco: i Beach House, per quanto siano recenti, sono riusciti a creare qualcosa di incredibilmente iconico e sacro, riconoscibile e classico. E poi ancora Carl Orff e i suoi Carmina Burana. Trovo nella musica con una forte tensione emotiva una dimora. Per me essere carico di emotività esasperata è uno stato del tutto naturale.
Che poi è il concetto stesso dell’estasi mistica (cristiana e non): introiettare la sofferenza, abitarci e accettarla per poi provare un senso di piacere e infine di liberazione.
Proprio così. Negli ultimi anni ho provato spesso un senso di vertigine come quando si è su un ottovolante: sali in cima, provi un nodo allo stomaco ma riesci anche a stare bene perché è adrenalina pura. E’ riuscire a liberarsi da una serie di momenti di impasse, è un senso di scoperta, quindi un evento. Ho scorto un sentire simile nell’ultimo lavoro di Arca che dice a vive lettere: “sono questa cosa qui senza nascondermi”. Eccolo il senso dell’estremo, il senso catartico, un sentimento talmente forte che per liberarsene è necessario farlo esplodere. Questa catarsi ritorna, in modo più morbido, nel pezzo finale, Recognize: un ringraziamento finale, un saluto, l’anima in pace. Sono riuscito a tirare fuori tutto questo anche grazie a Mario.
Chi sono gli altri collaboratori?
C’è Gianfu (Gianluca Perucchini) dei Sakee Sed alla batteria in due pezzi, A Minute to Now e An Ode to the Beast. Lui da sempre ha avuto una visione batteristica molto vicina a quella che piaceva a me: viscerale, primitiva, di pancia, dal piglio animalesco, e allo stesso tempo poetica. Che è poi coerente con quell’esasperazione di cui abbiamo appena parlato, quel tirare fuori se stessi a tutti i costi. Non vedo altri modi.
Altri collaboratori sono stati Daniela Savoldi e Marco Benz Gentile agli archi per il pezzo iniziale An Ode to the Beast, una vera cavalcata delle Valchirie nonché pezzo preparatorio che cala l’ascoltatore nell’atmosfera del disco e nel viaggio di Ecstasy.
Per il live come farai? Chi ci sarà?
Saremo in tre: ci sarà Mario Conte più Riccardo Salvini dei Foxhound al basso e chitarra. In un secondo momento mi piacerebbe ristudiare il live inserendo una batteria. Per me ora è fondamentale comunicare la coesione tra me, Mario e Riccardo, poi penserò a come rivedere il disco in una nuova dimensione live. Che è un po’ come ha fatto IOSONOUNCANE per portare DIE in giro: prima da solo con i campionatori, poi con la full band.
Hai appena detto iosonouncane – che è uno dei nomi che mi è venuto in mente alla luce di un pezzo come Spazio HD, un vero colpo di genio in Ecstasy. L’unico pezzo in italiano nel disco, un discorso a parte ma perfettamente integrato nella logica dell’album.
Sai, lui è uno di quelli che stimo incredibilmente. Ha avuto il coraggio di pubblicare un disco come DIE che, nel marasma di chitarrine acustiche che invadono il panorama indie, si stagliava di netto. Prendi un brano come Tanca, ad esempio. Mi sono innamorato totalmente: è riuscito a gettare una sorta di uncino prendendomi al petto, dicendomi “tu sei mio” (che è un po’ la stessa cosa che riescono a fare, ogni volta e in ogni canzone, i Beach House). E’ un magnetismo, un gioco di attrazione immediata, un qualcosa che non riesco neanche a paragonare ad un altro artista nel mondo.
Spazio HD è nato così: sample di archi portato di Mario, in 10 secondi ero già rapito. E da subito ho voluto scrivere il testo in italiano. E’ un pezzo che chiama un approccio da preghiera, un parlato. Spontaneamente è nato come un esperimento sulla lingua, riuscire a far suonare l’italiano in un modo diverso da come solitamente suona in musica.
La cosa che infatti trovo pazzesca è che di solito la musica italiana può risultare poco ritmica e troppo melodica e armoniosa. Tu in questo pezzo investi molto sull’aspetto ritmico. Ad esempio, quando dici: “un giro di sirtaki e risplendi anche tu”, quel “anche tu” suona come un beat.
Il testo è stato un gioco di squadra con Mario e Lorenzo (Colapesce). Si percepisce un forte sentire comune in quel pezzo: in effetti è stato un momento bellissimo condivisione tra tre persone che si stimano. E’ uno dei pezzi di cui sono più innamorato. Vuoi un po’ perché in italiano, una lingua nella quale non sono mai stato abituato a cantare e comporre. Credo che la nostra sia una bella lingua ma bisogna rispettarla, trattarla con devozione e darle tempo per capirne davvero le potenzialità. Per questo mi sono sempre ripromesso che avrei scritto un pezzo in italiano nel momento in cui la linea in italiano sarebbe suonata, ad un livello qualitativo acustico, simile all’inglese.
Prima hai parlato di icone cristiane. A parte che la foto di copertina per Ecstasy potrebbe benissimo rientrare nel filone, anche nel video di Light Year sei molto Cristo/Marc Bolan. Mi dici di più di come è nato?
Eh, Giada (Bossi, ndr) è davvero un portento e la fotografia di Tommaso Terigi è una meraviglia. Volevo fortemente un video che potesse trasmettere già da subito l’energia di quello che sarà il live; in più desideravo fosse molto diretto e onesto, senza fronzoli. E ancora volevo annullare completamente lo spazio – questo disco, infatti, non si muove in nessuno spazio, non ha alcuna connotazione urbanistica. E’ in una stanza, al buio. E’ un video pieno di energia.
Quando parli di Cristo e Marc Bolan: tutto fa parte di un discorso compatto e coeso. Non c’è nulla che si allontana da un immaginario ben preciso. La parte onirica e visiva è molto importante per me tanto che prima di suonare mi faccio dei moodboard: ci metto tutto quello che mi piace, mi stimola e mi emoziona a livello visivo e cerco di interpretarlo in musica. E’ una dichiarazione d’intenti e d’identità: io mi muovo tra queste coordinate.
L’atmosfera sacra e gli anni ’80 sono alcune costanti del disco. Hai mai pensato che certo pop di quegli anni avesse un’atmosfera sacra, forse anche per l’utilizzo massiccio del riverbero su ogni strumento?
Se ci pensi tutti gli spazi sacri hanno un riverbero affinché il messaggio sacro ti avvolga completamente. Devo dirlo: non sono molto credente. Credo in un’energia vitale senza una valenza religiosa o una personificazione nel Cristo o in Buddha. Però la sento forte.
Beh, la tua è una visione che va oltre un significato prettamente religioso e si avvicina al pop.
Gesù Cristo è senza dubbio una delle più grandi popstar mai esistite. Come il Papa. Conosciuti ovunque, trasversali, con un messaggio che raggiunge potenzialmente tutti. Parlando di pop, posso dirti che è sempre stata una vocazione innata. Mi viene proprio naturale, Light Year è stata scritta in 5 minuti. Devo però ammettere: i primi tempi è stato Federico Dragogna a spingermi a cantare.
Per quanto riguarda la voce, credo che nel pop debba essere più chiara possibile. Questo non m’impedisce di ascoltare anche cose sperimentali: ultimamente sono stato folgorato da Yma Sumac, una specie di Frida Kahlo della voce, che riesce ad arrivare pure agli ultrasuoni.
Alla fine l’amore per il super-pop di Madonna non lo dimentichi, no?
Non potrei mai! E Ray of Light è il disco perfetto sotto tutti i punti di vista: estetici, di messaggio, musicali. Mi piacerebbe arrivare a fare un disco come quello prima o poi. Mi do altri 100 anni per arrivarci. T’immagini un bel feat di Christaux e Madonna?
Avoja! I nomi assieme suonano pure benissimo: Madonna ft. Christaux.
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Mentre Clod ed io parliamo, accade qualcosa di mirabile: il gruppo di ragazzi accampati poco distanti da noi fa partire una compilation di Madonna. Clod è incredulo e estasiato. Questo lo devi scrivere, io credo molto nei segni, mi dice.
L’intervista finisce morbidamente con un’altra immagine: l’abbraccio della mamma, l’unica cosa che mi dà davvero soddisfazione come scrivere canzoni. Lei è la mia musica, la creatrice suprema, il ritorno, il senso di appartenenza.
Sacra come un’icona di una Madonna con bimbo.