Il grime è, quasi di regola, un genere da sguardi accigliati: toni sentenziosi e beat appuntiti, a tratti nevrotici.
Nel 2013 partì su Twitter una sfida tra producers: ognuno avrebbe dovuto postare una traccia prodotta al momento, con il contatore di riproduzioni a fare da giudice. I pezzi -sfacciati, spigolosi- assunsero l’appellativo calzante di War Dubs.
Un paio di mesi dopo, il producer londinese Mr.Mitch fece uscire Peace Dubs Vol. 1: versioni placide, pazienti e delicate di tracce aggressive, poste come antitesi alla freddezza del grime.
Miles Mitchell è stato in prima linea durante la recente risurrezione del grime strumentale: un’ondata eterogenea che ha trovato terreno fertile, ovviamente, in UK. Negli ultimi quattro anni, alcuni degli esempi più coraggiosi di elettronica indipendente sono nati dalla sua etichetta, Gobstopper Records.
La gentilezza delle sue melodie semplici non è fine a se stessa, tuttavia. Devout -secondo album, dopo il più cinico Parallel Memories– contrappone la vulnerabilità all’ipermascolinità del contesto grime. I tasti di My Life -leggermente fuori posto, dolcemente sfasati- elevano il dubbio a sinonimo di umanità.
Il dogma della “solitudine da strada”, con il cappuccio scuro come simbolo della tendenza ad arrangiarsi, viene ridipinto e sostituito dall’arte della paternità. Per la prima volta, Mr.Mitch canta: l’album è tanto personale da rendere inevitabile una sua diretta partecipazione verbale; tanto personale che nella tracklist compaiono Milo e Oscar, i suoi figli, il più piccolo dei quali campionato mentre pronuncia -per la prima volta, appunto- “dad”.
Devout racconta una storia di meravigliosa devozione, in cui la malinconia e il sacrificio sono sempre seguiti dall’estasi spirituale.
La trama del disco è liscia come uno scivolo nuovo: sin dall’intro, i bambini sussurrano importanza; P Money, grimer di Lewisham, descrive la forza della famiglia dalla sua prospettiva, con la serietà di un profondo consiglio; i flash distraggono -in Lost Touch soprattutto- ma Mr.Mitch non perde il filo; Denai Moore, già collaboratrice di SBTRKT, tesse un’ode all’amore per se stessi nella lotta contro il destino; Palmistry chiama dai Caraibi per parlare di internet, sottilmente sconsolato perché ormai la vita manca di materia.
Mitch, in My Life, si ricorda che tutto -la calma, la pace, l’amicizia del tempo- è merito suo: “it’s yours, it’s yours”, canta, e pare la fine di una giornata stancante ma straordinaria.
Nella sua delicata discografia, Mitch ha sostituito il metallo con una sostanza più trasparente.
Oltre a farci percepire il sereno, porta a compimento una missione eroica: sfatare gli stereotipi diffusi dai media riguardo i padri nella comunità nera, all’interno dell’ambiente grime e non solo.
Dando quasi per scontate le melodie lucenti di cui è capace, Mr.Mitch ci ha regalato uno degli album più maturi di questa prima metà dell’anno.