Si può parlare di black italians senza essere retorici e, magari, adottando punti di vista inusuali? Si possono evitare i luoghi comuni e le scorciatoie nel mentre si raccontano le storie di alcuni giovani emigranti italiani? Possono le parole cambiare lo status di una persona e farla accettare dalla società-comunità come una di loro? Può il colore della pelle, una diversa identità determinare la tua appartenenza o meno alla società? Sono questi alcuni degli interrogativi a cui cerca di rispondere “The Expats“, una web serie documentario incentrata sulla vita di sei ragazzi espatriati all’estero in cerca di nuove opportunità. L’autrice e regista è romana (con origini haitiane, ghanesi e americane) e si chiama Johanne Affricot. Tra le altre cose, nel febbraio del 2015, ha lanciato GRIOT, blog mag italiano (anche in versione inglese) che esplora il tema della diversità a 360 gradi, con un linguaggio contemporaneo e un respiro culturale. Il tema centrale e filo conduttore tra le storie di The Expats è il viaggio ma si parla anche di musica e arte, di razzismo, di identità riconosciuta e non, dell’essere italiani all’estero e in Italia. Ne abbiamo discusso con l’autrice.
Partiamo dal titolo. Qual è stato il pensiero che ti ha convinta a sceglierlo?
Il titolo The Expats – che poi è seguìto da The Untold Stories of Black Italians Abroad – l’ho scelto perché il termine mi permetteva di raccontare più mondi che avevo in testa per queste storie. Volevo giocare sul fatto che quando si parla di expat, la maggior parte delle volte ci si riferisce a persone bianche che lasciano il proprio paese per ragioni di lavoro (perché sono riallocate dalle aziende o istituzioni o ong per cui lavorano all’estero o perché scelgono di “espatriare” senza un contratto in essere, in cerca di nuove opportunità.)
Quando si parla di persone che hanno radici africane che si spostano per trovare condizioni di vita migliori, si usano le parole emigrati, migranti, immigrati. Un articolo sul The Guardian – Why are white people expats while the rest of us are immigrants? – che avevo letto un paio di anni fa mi ha dato ispirazione per il titolo, e parlava proprio di questa gerarchia delle parole. E a settembre, appena rientrata da New York, mi sono ritrovata un articolo de Il Fatto Quotidiano che si riferiva agli italiani che vanno all’estero con il termine “espatriati”. Ti è mai capitato di leggere articoli sulla stampa italiana che definiscono le persone che emigrano in Italia dall’Africa come di espatriate? Quindi con questo termine ho cercato di livellare il campo.
The Untold Stories of Black Italians Abroad, il sottotitolo, mi serviva per rafforzare il concetto, che queste sono storie di italiani non raccontate, storie di italiani che, come ti raccontano gli stessi protagonisti, non vengono visti, percepiti come italiani ma quasi sempre come immigrati, stranieri, come qualcosa di estero. Abroad per l’appunto.
Non so perché ma, dalla prima puntata, ho pensato che questa serie è molto hip hop, nel senso culturale del termine.
Assolutamente sì. La loro attitudine, il loro modo di vedere la vita e il fatto che abbiano trovato nella musica, nelle arti visive, o nella moda street wear dei validi alleati per da una parte esprimersi e dall’altra abbattere quelle barriere e stereotipi costruiti mettendo in cattiva luce le diversità racchiude molto di quello che è alla base della cultura hip hop.
E infatti negli ultimi due episodi londinesi trovi Adaeze Ihebom, una fotografa modenese di origini nigeriane che è laureata in fotografia. Per un po’ ha lavorato come fotografa di moda, ora è più concertata sul fotogiornalismo. Pochi mesi fa ha realizzato delle interviste a due ragazzi arrivati in Italia dopo aver attraversato il deserto della Libia e le hanno raccontato della schiavitù e delle vendita di essere umani. Ha fatto questo progetto per mostrare questa realtà che alle volte è trattata con troppa superficialità e non viene capita.
Poi c’è Stacey Foxx che è una grande. È una musicista pordenonese di origini ghanesi. Vive a Londra da sei anni e ha studiato Music Production and Engineering. Lavora in post produzione audio e video e nel mixaggio dei suoni ed è una musicista. Suona basso e la tastiera per lavoro, in diversi show e nelle funzioni delle chiese pentecostali ghanesi. Per gran parte della sua adolescenza è stata presa di mira solo per il colore della pelle, ma non si è mai pianta addosso. Quando siamo andati a riprenderla live in chiesa ero troppo entusiasta di essere lì. Un’esperienza che, anche se non sei religioso, una volta nella vita devi fare. Quando uno sente la parola chiesa si immagina tutta gente vestita da chiesa. Ti racconto questa. Stavamo vicino a un bar, cercando la chiesa (che per la cronaca era nel basement di un albergo extra lusso e abbiamo passato un’ora a cercarla) e da questo bar esce una figa, con le gambe tutte liscie (nonostante le temperature proibitive di Londra,) un tacco 12, e il trucco perfetto. Erano le 9:30 tipo. Io subito ho pensato, da italiana “starà facendo colazione post serata”. E invece no, caro mio. Stava andando in chiesa, perché poi l’ho ritrovata lì. Gente vestita super stilosa, con cappelli e abiti incredibili, che neanche ai matrimoni regali inglesi vedrai.
I nuovi giovani afroitaliani e i mestieri creativi che racconti sono persone interessantissime. Hai mai pensato che questa categoria potrebbe rappresentare una porzione troppo poco significativa a livello statistico? O volevi scegliere un punto di vista specifico e delimitato?
The Expats è un progetto di GRIOT e su GRIOT parliamo di arte, musica, fotografia, stile, creatività, quindi va da sé che ho circoscritto i personaggi alla categoria di artisti, creativi. Per il fatto di essere afroitaliani, non credo che siamo una porzione troppo poco significativa a livello statistico. Lì fuori – intendo qui in Italia – ce ne sono molti ma sembra che non esistano perché pochi sono interessati a cercarli, a raccontarli e per questo non ci vedi e pensi siamo poco significativi. Io non li vedevo né in televisione, né al cinema. Non li vedevo sui blog, sui magazine o nei quotidiani online e cartacei. Ma anche troppo pochi ne vedevo, che so, ai concerti di Lauryn Hill o Erykah Badu o Tyler, The Creator (che poi quest’ultimo l’anno scorso questa cosa l’ha fatta notare quando è venuto in Italia, ma non chiedermi la fonte perché non l’ho salvata.) E siccome non li vedevo, li ho cercati. Ed ho scoperto un mondo. E lo sto raccontando, insieme a loro. Ce ne sono tanti. La cosa positiva è che ultimamente stanno uscendo molto di più, piano piano, anche sulla stampa e nelle fiction tv. Quindi prendiamo il positivo e lavoriamo su questo. In tanti. Infatti tra i media partner ci sono le girls del blog Afroitalian Souls e i ragazzi di Supreme Nights, una crew di afroitaliani di Reggio Emilia che organizza serate di musica hip hop. E anche tu con Rooty stai lavorando a questo. Il fatto che mi ospiti qui e che mi permetti di raggiungere il pubblico di DLSO è già un fare la differenza, raccontare storie diverse. Ci siamo e proviamo a fare la differenza.
New York e Londra. Non riuscirei a immaginare due scenari metropolitani migliori per una serie di storie come quelle che racconti nella serie. Ci saranno anche altre città toccate dal racconto?
Al momento la serie è finita. Realizzare un progetto del genere, autoprodotto, richiede molto tempo, energie e soldi. Ed economicamente parlando mi risulta difficile continuare. A New York ero andata a trovare la mia famiglia, quindi sono riuscita ad ammortizzare un po’ i costi. Ma Londra… Gesù, cazzo quanto mena. Non me lo ricordavo. E anche lì eravamo ospiti a casa di amici. Santi amici.
È stata la mia prima esperienza a livello di regia e di montaggio – nelle prime puntate per l’editing mi ha aiutato Marco Brunelli, che è il cinematographer di tutta la serie.
Se devo essere sincera, secondo me questo progetto va bene che finisca così. Continuerò a raccontare storie di creativi e artisti afroitaliani, sia a livello video che di articoli, così come storie di artisti africani e della diaspora africana, ma soprattutto storie legate alle arti che ci piacciono. Quindi puoi trovare di tutto.
Il tono mi pare sia uno dei caratteri più forti della serie. Un tono che è inatteso, deciso, per nulla scontato, diretto e controllato pur non rinunciando ad essere provocatorio. Hai espressamente cercato di bilanciarlo?
Provocatorio dipende sempre dai punti di vista ;-) Comunque sì, sono contenta tu abbia notato che il tono sia bilanciato e per nulla scontato. Non volevo fermarmi solo alla questione identità e razzismo ma mettere in risalto le loro arti, i loro mestieri creativi, perché c’è anche questa tendenza a vederci e dipingerci (afroitaliani e neri in generale, soprattutto in Europa e negli States) come un blocco monolitico. Sai, un ragazzo quando è uscito l’episodio di Sarah Von H, la dj che vive a New York, aveva commentato che era felice e sorpreso di aver scoperto che lei ascoltasse punk, rock e che andasse ai rave, per poi aggiungere poco dopo un commento molto sincero in cui diceva che era assurdo che si fosse meravigliato e che la sua testa associasse i neri solo alla musica hip hop.
Un ritmo lento, rilassato, con tempi poco televisivi. L’hai volutamente cercato o è stato un risultato.
Volevi dire “Che palle…!” vero? Hehe. Sì, assolutamente. Potevo fare delle puntate molto più brevi. Gli episodi hanno una durata media di 8-10 minuti per il discorso che ti dicevo prima. Quando queste storie non le vedi mai, non riesci a trovarle, una volta che le fai (e le fai per tutti gli italiani, con singola, doppia o tripla cultura, e anche per l’estero) cerchi di metterci dentro più roba possibile. E ho tagliato tanto, te lo giuro.
Storie che colpiscono: dirette e inaspettate. Come le hai trovate e come le hai scelte?
Tramite i social. È stato un lungo lavoro di ricerca trovare le persone che mi ispirassero di più. Non mi andava di mettere gente a caso, solo perché rispondeva a caratteristiche fisiche e suonava chi uno strumento, chi scattava foto o chi faceva il regista o il designer di una linea streetwear. Ci ho messo un po’ di tempo e alla fine sono contenta delle scelte che ho fatto. Si sono aperti senza paura, fieri di raccontarsi e quindi il merito del successo della serie è anche loro.
La ricerca di una identità coerente, forte e resistente. Mi pare sia questo uno dei caratteri comuni dei vari protagonisti. È così?
Sì, questa è una delle cose che, insieme al fatto che gravitino nel mondo della musica, delle arti visive e della moda, li accomuna. La ricerca e l’affermazione di una e più identità, forti e resistenti.
di Andrea Mi.