Bravo Dischi colpisce ancora e, dopo Colombre, questa volta fa centro con una band: il trio romano Moblon che da qualche giorno ha pubblicato l’album d’esordio t.i.n.a.
I tre arrivano con la freschezza di un ghiacciolo all’amarena e un fottìo di canzoni pronte a svoltarti l’estate.
Ce le siamo fatte raccontare tutte e dodici qui sotto.
NIENTE
Questo non è solo il primo brano del disco, ma è il primo brano del progetto Moblon, il più vecchio in assoluto, la cui prima composizione risale a quasi dieci anni fa. Messo in testa alla tracklist vorrebbe essere una sorta di ouverture, primo passo di un viaggio che chiede di tornare indietro con la mente fino a non ricordare più niente, abbandonarsi a quel “qui” dove il presente è qualcosa che non si può sapere. In poche parole, introduce subito alla condizione d’angoscia di Tutti I Nostri Alieni ma in modo ancora confuso, contraddittorio e contorto, è un brano riassumibile molto come sintomo vero e proprio anziché dichiarazione cosciente.
Qui, di particolare, che non si noterà facilmente senza suggerimenti, c’è da dire che abbiamo registrato alcune voci sussurrate/parlate molto sovrapposte tra loro, un chiacchiericcio insomma, messo sulle strofe, di sottofondo.
Questo vociare, realizzato da noi tre, vorrebbe essere un rumore e di fatto è costituito da parole estrapolate a caso da tutti i testi di tutto il disco. Anche se non era nostra intenzione far capire alcuna parola di questo fruscio abbiamo voluto dargli un senso, come riproducesse una memoria in gioco: quella dell’album.
“Che noi nella vaga inquietudine dell’angoscia spesso cerchiamo di rompere il vuoto col parlare a vanvera, è soltanto una prova della presenza del niente. Che l’angoscia sveli il niente, lo constatiamo noi stessi immediatamente appena se ne va.
Lo sguardo, ancora fresco del ricordo, si rasserena, e noi siamo costretti a dire: di che e perché ci siamo angustiati? Non c’era, ‘propriamente’, niente. E, in realtà, il niente stesso – come tale – era là”.
FUORI DEL GIORNO
Fuori “del” giorno, e non “dal, è l’espressione che in sé vorrebbe indicare ancora la condizione di estraneità che è trama principale del disco, ma questa volta come fosse un rifugio sicuro, in quanto unica condizione certa “finché sono qui non so dove sono / e questo è l’unico posto sicuro”. E dunque “fuori del giorno”, che è l’oggettivazione del giorno, viene adottato come metafora di un “modo di vivere” gridato con toni tra l’orgoglioso e la richiesta d’aiuto. In poche parole è un brano molto adolescenziale, questo è il suo carattere principale, come un primo passo nella presa di coscienza di questo viaggio, dichiara uno stato emotivo e una condizione buttandolo un po’ in faccia provocatoriamente e lagnosamente, proprio come farebbe un adolescente depresso e incazzato che direbbe “è così, facci i conti tu”. Non a caso la resa musicale richiama un certo grunge per alcuni giri e linee vocali, fatta eccezione della parte iniziale e finale che con un giro di accordi dalla settima maggiore in una fluida distorsione di overdrive e phaser regala sonorità più tipiche dello shoegaze o volendo coniarlo: dream rock. Il testo contiene una citazione dalla poesia “Poeti futuri” di Walt Whitman “L’oggi non può giustificarmi”.
DIETRO IL BOSCO
Questo è un vero e proprio flusso di coscienza onirico. Un mix di ricordi, visioni, sogni e appunti di botanica. Tutto di un fiato, come un “fiume in piena”, senza pause se non per prendere respiro, con una cadenza musicale armonicamente sempre uguale, ossessiva, e da una dinamica crescente aiutata da interventi sempre maggiori di sovraincisioni fino a sfociare in un delirio, di cui si promette “quando m’alzerò domani, voglio fartelo vedere”. Probabilmente una boccata d’aria per quanto riguarda il testo, qui ci sono in ballo tanti elementi naturali e osservazioni spensierate, ma altrettanto pesante nel suo caos. La molteplicità di informazioni richiama in qualche modo ancora la condizione frenetica e compulsiva dell’era che viviamo, questa volta in modo più immaginifico e fantastico.
Questa take è forse quella con più tracce in mix, più di una decina diverse tra loro, tra cui due linee di basso, due linee di batteria, una percussione di ovetto, un pianoforte, una chitarra acustica e almeno quattro voci.
SUL MURO
Primo brano dalla durata inferiore ai due minuti e primo brano con il pianoforte come unico strumento in funzione armonica. “Sul muro” è un lampo cruento e disorientante, strutturato in tre sezioni che si alternano tra tempi pari e dispari (4/4 e 7/4). Un brutale ritorno nel vortice angoscioso, questa volta più allarmante e declamatorio, accompagnato da un sound violento e allo stesso tempo nudo. Il suono del pianoforte (uno yamaha a coda) abbastanza secco in contrapposizione alla profondità dei grossi fusti della batteria (ludwig anni ’60) e un basso distorto. Si parla forse di un suicidio, di un ultimo biglietto in forma non troppo dichiarata di post da social network, di smarrimento, di violenza come unica risorsa imposta e di separazione: il muro.
LA STEPPA
“La steppa” è un altro brano assai vecchio, un altro il cui embrione venne buttato giù quasi dieci anni fa. L’intenzione era quella di utilizzare cadenze tipicamente classiche (I-V-I) dall’efficace e netta risoluzione in chiave rock. Dove le chitarre elettriche fanno da archi, minimizzati, compatti e dal sapore più acido. Questo gioco continuo di cadenze reiterate, utilizzate insistentemente come unico materiale tematico, senza particolari sviluppi, serve un po’ a denunciare il rapporto diretto che la comunicazione ha con il pubblico oggi, ridicolizzando le mediazioni della critica ponendo come unico obiettivo quello della ribalta, come nella dimensione di una comunicazione massmediatica. Sopra a questo un testo che denuncia il sentimento di spaesamento ed la sensazione di una condizione di orfanità: “quale terra m’accompagna, in fondo m’ha la mia lasciato”. Il brano accoglie la citazione di un’aria di G. Verdi, dal “Coro degli zingari” de’ “Il trovatore”, con il verso “chi del gitano i giorni abbella?” intonato in modo più grezzo e accorato. Ospita inoltre la partecipazione amichevole di Lorenzo Autorino (frontman dei Departure ave., Bomba Dischi) che si è prestato nell’esecuzione di una linea di clarinetto da lui arrangiata.
ERA SPAZIALE
“Era spaziale” è uno dei nostri maggiori orgogli, un brano caratterizzato dalle armonizzazioni vocali, è la prima ballad che il disco presenta fino a questo momento e chiude una sorta di “Lato A” dell’album. Sicuramente più morbido e disteso, è un primo sospiro di sollievo. Tuttavia il testo richiama ancora le tematiche fino ad ora trattate, questa volta con un occhio particolare per la solitudine e la nostalgia. Solitudine che è circostanza dell’epoca in cui “tutti ovunque sono a casa / tutti a casa sono ovunque” e nostalgia dell’era precedente, prima dell’avvento del digitale, l’era spaziale per l’appunto. Qui è presente una citazione più moderna, anche se si tratta di una semplice scala al termine del brano, il modo lidio ossessivamente riprodotto come cantava Elliott Smith in “Everything means nothing to me”. Questo brano è uno degli ultimi composti, quindi quasi due anni fa.
NON TOCCARE
“Non toccare” invece è un’altra delle primissime composizioni. Nata durante il tentativo di musicare una poesia di B. Pasternak, inizialmente con la chitarra, ha preso forma modellandosi un po’ sulla metrica della sua poesia. Apre dunque l’ideale “Lato B” del disco ed è uno dei brani più lunghi, circa sette minuti. Era nata da un’idea di chitarre distorte, molto shoegaze, poi questa idea di suono è finita nel corpo di un basso, che infatti fa da muro e domina sul resto. In contrapposizione abbiamo un pianoforte più “classicheggiante”, arrangiato in parte sotto influenza di una sonata per piano di Beethoven ma solo per farne un motivetto sciocco e ridondante che man mano verrà mangiato dal resto. Ancora in contrapposizione al muro di suono del basso c’è una voce quasi sussurrata. Ad accompagnare ciò, una batteria molto rock. Il brano è introdotto da una parte noise e si suddivide poi in quattro grosse sezioni, raggiunto un apice dalle sonorità molto psichedeliche sfocia infatti in una parte free, improvvisata, dalle leggere influenze jazz, e si conclude con una remissiva chiusura più distesa, anche se tendente a sviare fino all’ultimo la risoluzione che si attenderebbe. Il testo è molto sognante, romantico in senso sentimentale ed intriso di amore per il ricordo e la conservazione.
SOLE
Questa è decisamente la seconda ballad del disco. Anche se non ha la struttura tipica della canzone, manca di ritornello, come spesso accade in questi brani. Quindi è anche questo un piccolo lampo, dalla durata di meno di due minuti, ma decisamente più dolce e cullante. Una sorta di ninna nanna d’amore, con una progressione di accordi costante ed invariata se non per le modulazioni di tonalità. Proviene da un affare privato, a differenza degli altri brani, e si sente la spontaneità e l’ingenuità del testo. Doveva rimanere affare privato ma alla fine è stata inserita nel disco come contrappunto a tutto questo disagio esistenziale. Forse la prima vera boccata d’aria, non c’è molto altro da dire, è tutto molto semplice.
ARRIVO
“Arrivo” è invece uno dei brani più ostici, si impone verso la fine del disco con la sua durezza nell’arrangiamento, forse ai limiti della tensione tonale sopportabile in ambito pop. Accompagnato da un pedale ostinato di basso e con il sopravvento di una ritmica incisiva ed irruenta su quel che altrimenti poteva essere un “semplice” valzer. Con un pianoforte che gioca su dissonanze in contrapposizione al basso e a tratti anche alla linea vocale. La linea vocale è emotivamente ispirata dall’ascolto assiduo della celebre aria “Casta Diva” di V. Bellini, anche se non ne conserva visibilmente praticamente nulla. Il testo è uno dei più complessi e mescolando sgrammaticature a letterarietà intende ribadire ancora, in una dimensione caotica, condizioni di orfanità, precarietà e frustrazione. Questa volta come in una forma di preghiera si chiede di rendere omaggio al martirio ed il coraggio di chi vive senza alcuna sicurezza o conforto. E ancora, si parla di abiura e di abbandono forzato. In qualche modo, si è quasi alla fine del viaggio, verso un arrivo che dovrebbe essere più speranzoso nel recupero futuro di della memoria perduta: “L’arrivo arride e odora / pie voglie di domani / o meglio la memoria / di nuova etade stata”. Durante la stesura del testo ha influito leggere Carducci. A chiudere il brano un solo di voci che è uno sfogo quasi tribale, un richiamo alle identità sommerse.
GIRO A LARGO
Questo è un brano che come “La steppa” contiene riferimenti classici forti, in questo caso si tratta della linea melodica della voce iniziale che si apre imitando un ricordo di quella corale della bellissima aria di Verdi, “Gli arredi festivi”, dal “Nabucco”. Il brano così introdotto continua con sonorità molto rock, utilizzando però ancora un riff ricavato sempre dalla medesima aria, rubando la cadenza poi resa con altri accordi e ritmo.
Qui si parla ancora di memorie, questa volta molto private. Falsi ricordi, ovvero ricordi incerti, lontani, e ricordi post-adolescenziali di amici e di loro tentativi di suicidio. “Il buio che si casca” è una sgrammaticatura, direttamente dal marchigiano, sarebbe “il buio che casca”.
TUTTI I NOSTRI ALIENI
Praticamente questo pezzo sarebbe l’ideale ultimo brano dell’album, oltre che la title-track, anche se con l’acronimo sciolto. Finito tutto questo pesante percorso viene da sé dirci in forma di canzone più standard che tutto questo finirà, passerà, e che “tutti i nostri alieni / saranno liberi d’andare un giorno / sapranno stare soli”. A motivare questo ritornello ci sono un paio di strofe che elencano altri elementi e ricordi per completare il quadro.
Questo motivetto venne fuori in un giorno non troppo felice, pesantino anzi, pedalando a corviale. La promessa finale che chiude tematicamente il disco è non solo nel ritornello sopra citato ma anche nei versi corali, urlati: “torneremo qui lucidi”.
SEDIA
E “Sedia” invece è una sorta metacanzone. Nata anche questa, come per “Sole”, da un affare personale, la si voleva tenere come ghost-track. Un pezzetto brevissimo acustico dalle sonorità un po’ anni sessanta e un po’ inaspettatamente iberiche. Concepito inizialmente come messaggio privato e pensato con quel solo scopo. Scritta di getto, si muove su toni ironici e provocatori, nel tentativo di fare per gioco una canzone più normale, leggera e diretta . La “sedia” è una metafora improvvisata della comodità, in allusione ad una scelta sentimentale di comodo fatta da qualcuno. Finita nel disco per lo stesso discorso dell’altra: è un lampo di affinità e di umano tra gli “alieni”.