Oggi, durante una delle tante sessioni annoiate di swipe in giro per la rete (non ricordo nemmeno precisamente su quale social network fosse stato postato), ho letto di sfuggita un meme il cui motto o – per rimanere in tema rap – punchline recitava:
“… ma come si fa ad odiare Ensi?”
Tentando di parafrasarlo, è effettivamente dura, al di là dei propri gusti musicali, non portare rispetto ad una carriera di rara solidità e coerenza, qualità che per il rapper torinese non hanno mai rappresentato un limite o una chiusura: dagli esordi con i OneMic, ai traguardi raggiunti col freestyle, dall’approdo in major fino ad arrivare al rilascio di V, l’ultimo lavoro in casa Warner Music.
Lo abbiamo intervistato poco prima del rilascio dell’album per farcelo raccontare.
V è il tuo quinto album, il secondo sotto Major. Trovo che tu sia tra i pochi in Italia che possa vantare una certa coerenza riguardo le proprie scelte artistiche, anche in relazione alla cultura hip hop in generale. Secondo te conta ancora nel 2017 essere coerenti nel proprio percorso musicale?
Oggi più che mai credo che sia importante essere coerenti con il proprio percorso musicale e artistico, viviamo un momento storico dove tutto cambia molto velocemente, specchio della società in generale. Io sento la necessità di marcare la mia appartenenza ma non per sbandierare un qualcosa, faccio quello che ritengo migliore per me e fortunatamente, quello che mi piace fare. Non significa essere anacronistici, ho fatto un disco attuale, ci sono sonorità più moderne come quelle più classiche senza tempo, quello che conta è la mia attitudine e la mia visione d’insieme.
Quella non cambia e penso di averlo ribadito ad ogni album, in questo a maggior ragione.
Se devo essere sincero, dopo i cambiamenti recenti nella tua vita privata, mi aspettavo un disco con mille collaborazioni oppure addirittura un concept album senza nessun feat… Invece mi sembra che tu le abbia calibrate attentamente. Come hai scelto gli ospiti e le produzioni?
Ho lavorato con un team che mi ha aiutato sulla visione globale del disco, abbiamo scelto insieme alcune delle produzioni e lavorato in maniera corale al resto. Siamo partiti da zero. Dalla ricerca, dagli ascolti. Abbiamo lavorato sulla ricchezza dei suoni e delle atmosfere ma anche sulla soglia dell’attenzione cercando di essere imprevedibili nei cambi e nelle strutture, mai banali o canonici. Spero che si senta la voglia di fare qualcosa di originale, un’evoluzione coerente del mio percorso. Questa ricerca la sento nelle produzioni come nel rap, mi sono buttato in cose nuove, nuovi flow, melodie e nuove chiavi di lettura, per questo ringrazio fortemente Vox P e il team torinese di Asfvck, mi hanno spronato molto. mi sono sempre circondato di persone che stimo, in questo album ci sono produttori come The Night Skinny, Dj 2P, Vox P, o rappers come Clementino, Madman & Gemitaiz, con i quali mi trovo ormai da anni, ma ho cercato di collaborare, fra producer, rappers e musicisti, anche con nomi con i quali non avevo ancora avuto il piacere di incrociarmi artisticamente.
Luché, come Low Kidd, Frenetik & Orang3 o Phra (Crookers) ma anche a Il Cile, Ninja dei Subsonica o Fabio Giachino. Tutti i nomi sono lì per una ragione. Il disco non è mai partito come un concept album ma per i vari significati e per l’intensità del totale un po’ lo è diventato, almeno per me. È un disco che secondo me ha una forte identità, dalla musica a come sono posizionati i brani nella tracklist al lavoro di grafica. Esiste un grande equilibrio tra forma e contenuto, per questo lo reputo il mio migliore fino ad oggi.
Lo scorso anno (insieme ad Emis Killa) hai intervistato Izi in radio e mi sembrava fossi preso parecchio bene dalla nuova scuola che, come tutte le correnti che aprono un nuovo capitolo, è composta ovviamente da luci ed ombre. Cosa non ti convince di questa nuova scena e cosa invece secondo te ha contribuito a cambiare in positivo il rap italiano?
È ciclico, inevitabile e fondamentale che ci sia un ricambio generazionale. Succede in tutto il mondo, in tutti i generi. Ho speso buone parole per alcuni dei nuovi e le ho ribadite quando mi è stato chiesto ma non mi mordo mai la lingua.
In questo disco (come nella vita) prendo le distanze da una certa visione contemporanea. Per quanto io sia un cultore di questa musica e cerco sempre di capirne le evoluzioni con alcune correnti non riesco proprio. In Italia come in America, per qualità della scrittura e atteggiamento mi sembra qualcosa che c’entri davvero poco con il mio mondo. Ma non mi sento antagonista di nulla, tanto meno mi metto in competizione facendo leva sul “vero” o il “meno vero”. Ognuno fa il suo. Saranno probabilmente il mio gusto e il gap anagrafico che non mi permettono di decifrare in pieno alcune correnti, ma i numeri non mentono e bisogna riconoscerlo.
In generale (di quelli bravi) apprezzo il loro potere comunicativo e la freschezza della forma, dall’immaginario all’interpretazione. Non amo invece la dilagante mancanza di personalità, qualcuno ha stile e si differenzia ma in generale mi sembra di ascoltare sempre le stesse produzioni con le stesse liriche, stessi argomenti, stessi video.
In Sugar Mama, che è forse il pezzo più leggero del disco, ad un certo punto dici “è già da un po’ che sto pensando ad una svolta reggaeton”. Immagino non ti riferisca a nessuno in particolare ma in effetti alcuni dei tuoi colleghi recentemente hanno fatto delle scelte in quella direzione. Cosa ne pensi?
Immagini bene, non è riferita a nessuno in particolare, casualmente è a tempo perché le sonorità odierne sono molto influenzate da questi ritmi. Non posso negare una mia passione per il genere, o meglio, rispetto molto le radici del reggaeton e capisco la sua forza e la sua diffusione. Andavo nei club a Torino nei primi duemila, il reggaeton andava per la maggiore e mi capitava che mi invitassero a fare freestyle su quei riddim. L’ho sempre fatto volentieri. Ma non è il mio e posso assicurarvi che una svolta al momento non la vedo affatto.
Come ti poni di fronte alle nuove forme di diffusione della propria musica, quindi agli In-Store, alle Instagram Stories etc e ai relativi meccanismi?
Agli instore non sono nuovo. Ho fatto il tour de force sia con “Era tutto un sogno” sia con “RockSteady” e per quanto possa essere estenuante è un bel modo per ritornare qualcosa ai supporters e vedere che ci sono persone dietro quei nickname e foto profilo. Inoltre oggi i dischi si vendono soprattutto così. Per quanto riguarda Instagram e i social in generale la mia generazione non è cresciuta con tutti questi strumenti, ce li siamo ritrovati da più grandi quindi sono meno attento e meno attratto da tutta questa tecnologia. Ma faccio il rapper oggi, quindi devo farci i conti in qualche modo. Cerco di utilizzare al meglio tutte le possibilità che abbiamo nel 2017 ma non gioco a fare il diciottenne e non mi faccio mangiare la testa da questi meccanismi.
Credo che i traguardi raggiunti attraverso il freestyle siano stati per te involontariamente anche un’arma a doppio taglio. Parlo del fastidioso paragone tra i dischi in studio e l’arte dell’improvvisazione, di cui sei indiscutibilmente un maestro. Chi e quale rapper sarebbe oggi Ensi se non avesse rappresentato una figura così di rilievo nel freestyle? Ti alleni ancora a farlo?
Vincere tutto mi ha fatto diventare il nome più noto in materia, questo mi ha reso celebre ma ha influenzato il giudizio del pubblico nei confronti della mia scrittura. Credo che se non fosse stato per il freestyle avrei faticato molto di più per farmi largo nel panorama e in tutta onestà devo attribuire alla mia capacità d’improvvisare il merito di molte vittorie nella mia vita, aldilà della musica. È una skills che ho.
A mio favore dico che con la mia discografia, soprattutto con le ultime uscite, sono riuscito a spostare l’attenzione sul mio rap scritto e questo mi fa molto piacere.
Nell’improvvisazione ho vinto le competizioni più significative collezionando un triplete che nessuno potrà mai ripetere, ma la mia gara oggi è fare le canzoni. Non mi alleno più a fare freestyle, sono meno veloce con le punchline ad effetto ma ho l’esperienza e sono molto più padrone del tempo e più musicale, nei live mi capita ancora di buttarmi in qualche session e alle volte faccio ancora qualche numero.
Secondo me in Italia ci sono rapper eccellenti sotto tutti i punti di vista che però non hanno la visibilità che meriterebbero. All’estero, anche in Europa, il pubblico e le scene invece coesistono, i vari sottogeneri vantano un seguito di tutto rispetto e generano, perché no, anche un ritorno economico. Perché invece secondo te in Italia storicamente i generi del momento oscurano quasi completamente il resto?Secondo me non è proprio così. Di bravissimi che stanno a casa a girarsi i pollici ne conosco davvero pochi, spesso per questi subentrano le complicazioni della vita e purtroppo vengono rallentati. Ma in generale con la diffusione che ha avuto il genere negli ultimi anni ho visto crearsi delle piccole “scene di mezzo” che hanno il loro mercato dignitoso, o più che dignitoso, sia discografico che live. Solo che non sono colpiti in pieno dai riflettori. È una mera questione di numeri.
Bisogna impegnarsi sotto tanti punti di vista, anche quelli meno “artistici”, curare bene il proprio lavoro a 360° e non tutti ci riescono. Oggi avere talento non è sufficiente e questa categoria deve fare il doppio della fatica. Io confido e mi rivolgo maggiormente a chi ha un gusto più ricercato e il background e la sensibilità per capire in pieno questa musica, che sono comunque moltissimi. Ma grazie al respiro che ha oggi il rap italiano e al percorso che ho fatto finisco per colpire in parte anche il ben più largo bacino d’utenza della fascia media di fruitori del genere, fatta in maggioranza di più giovani che seguono questa musica come fenomeno di massa. appunto, come un trend.
Quindi, sorpassato il discorso della meritocrazia che non esiste in nessun settore, per me resistere alle ondate generazionali è l’unico metro di valutazione. Oggi vedo alcuni nomi storici concretizzare il loro status di leggende e raccogliere molto di più che in passato, ma non per tutti sarà così, è una questione di solidità. Per il resto è normale che un progetto nuovo nell’immediato susciti più interesse da parte dell’indotto della musica, a maggior ragione oggi che stiamo vivendo un enorme ricambio generazionale. Bisogna darsi da fare.
Non capita molto spesso in Italia che un rapper ricopra anche la figura del padre e che in generale i propri figli siano parte integrante delle tematiche del disco. Come mai secondo te? Quanto e come ha influito la nascita di tuo figlio nella realizzazione dell’album?
Innanzitutto perché l’età media nella quale si hanno figli in Italia è aumentata parecchio. Non molti dei rapper italiani sono dei papà. Anche colleghi più grandi di me. Credo anche che in generale parlare di certi valori, mettersi a nudo e raccontarsi, tentare di guardare con distacco il proprio status sia una strada più tortuosa e forse, meno redditizia. I disvalori vincono sempre e alcuni vogliono mantenere la loro posizione marciando su un determinato tipo di immagine, anche quando non è molto in linea con la propria età, ma questo è un parere mio e non viviamo tutti le stesse esperienze. Sarà che mi ha sempre motivato una sofferenza diversa ma a 31 anni compiuti posso dirti che riscoprire la capacità auto-terapeutica della scrittura è stato forte. Riscoprire che questa musica serve in primis a me è stato importante. Diventare padre mi ha influenzato nel rap per forza di cose. Ha ribaltato le mie priorità e stravolto la mia vita, di conseguenza mi ha arricchito di argomenti e di spunti. Mi ha migliorato.
“Alla fine resta il verme finito il Mezcal”.
Parafrasando, ti riferisci forse ad alcuni artisti di passaggio, figli di questo periodo florido, che inevitabilmente tra qualche anno finiranno nel dimenticatoio? Non pensi che il Mezcal sia già finito più volte nella storia del rap italiano e che in qualche modo il bicchiere sia stato già riempito e svuotato più volte?
In parte ho già risposto a questa domanda in alcuni punti delle altre risposte.
In “Mezcal” ci sono più sfaccettature, ma parlo anche di questo. La chiave di lettura è abbastanza critica ma è il mio pensiero. L’unica vera dote in questo gioco è la longevità e solo il tempo darà torto o ragione alle cose.