St. Vincent è tornata.
Negli ultimi due mesi l’abbiamo pedinata su tutti i social, seguendo le sue criptiche clips promozionali, fino alla presentazione ufficiale dell’album pochi giorni fa.
La conferenza stampa in diretta Facebook ha risolto molti dei quesiti che ci eravamo posti su questo disco misterioso, sempre con l’irresistibile sarcasmo che contraddistingue Annie Clark.
Riattivate le sinapsi del pubblico si torna in scena: caschetto nero corvino, sguardo tagliente, body e collant. La divisa di MASSEDUCTION è pronta.
Nei 13 brani co-prodotti con Jack Antonoff, St. Vincent tenta il salto con una grande produzione avvalendosi di collaborazioni del calibro di Kamasi Washington al sax, dei Sounwave ai beat, del duo jazz Tuck&Patti, di Jenny Lewis, del pianista Thomas Bartlett. Per non parlare dell’artwork che caratterizza questo lavoro e infine alla gigante direzione artistica del visual artist Alex da Corte per i primi due impeccabili video: New York e Los Ageless. Insomma, il quinto album è importante e la Clark non si è posta limiti.
MASSEDUCTION è un compendio di Art-rock, Pop e New wave pieno di suggestioni che a tratti rischia di strafare risultando distaccato al primo ascolto. Ma è anche un disco che non mira a una direzione cercandone infinite, esplorando percorsi che talvolta fanno perdere l’orientamento. St.Vincent è così: quando pensi di averla etichettata in un genere eccola lì che sfugge elegantemente tra nuovi esperimenti sorretta dal proprio talento e dall’innegabile intelligenza artistica.
HANG ON ME – Sono battiti e pulsazioni quelle che aprono questo nuovo album, la voce sospirata e aspirata della St. Vincent di “Marry Me”. La questione è posta subito sotto i riflettori: “You and me, we’re not meant for this world”. Quand’è l’ultima volta che non ti sei sentito parte di questo mondo? Pochi giorni fa dicevamo qui che St. Vincent non è una di noi. Annie ci tiene a precisarlo già dal primo brano del disco.
PILLS – Un brano autobiografico atto ad esorcizzare un periodo di dipendenza dai sonniferi, espresso in un incontro tra i ritmi world music-tribali (stile tUnE-yArDs di “Water fountain”) e un jingle alla Disney: “pills, pills, pills every day of the week”. Il cambio di rotta tra la prima parte del brano, con una delle sporadiche chitarre fuzzy e virtuosismi “alla St. Vincent” caricate dalle drum machine che ne materializzano il nervosismo pruriginoso, tendono a smaterializzarsi come per incanto nell’inaspettato outro. Come una carezza sul viso, i nervi si rilassano grazie alla languida chiusura affidata al sax di Kamasi Washington, per poche dolcissime note.
MASSEDUCTION – Per la title-track si ricorre a un gioco pop-funk robotico con soluzioni vocali che non possono far altro che materializzare l’immagine di Prince, con qualche chitarra distorta in più. Sonoramente collegata al brano precedente
SUGAR BOY – Si serve di basi ipercompresse e motivetti disco dance che ci travolgono con cascate di pailettes per poi confessarci in un cupo ritornello: “I am a lot like you/I am alone like you.”
LOS AGELESS – “How can anybody have you and lose you. And not lose their minds, too?” si fissa nella mente già dal primo ascolto. Si insinuano synth e flebili chitarre accompagnate da timidi virtuosismi fuzzy giusto per ricordarci che St.Vincent è ancora qui, compressa in sottili strati di latex, ego e glitter. Sovrastata da basi martellanti accompagnate dal cantato sensuale, sconvolgendo poi il tutto con un bridge nevrotico e irresistibile a coronare un perfetto brano patinato e pop, con tanto di confessione sussurrata sul finale in pieno stile Madonna.
HAPPY BIRTHDAY JOHNNY – “Annie, how could you do this to me?”
Voce cristallina, pianoforte e una leggera slide accompagnano per 2:58 un testo confessionale ed emozionante. Vacilla per qualche minuto la rockstar sergente di ferro mettendosi a nudo, tra solitudini e ansie, ricordandoci di una più giovane Annie Clark con i capelli arruffati dallo sguardo meno immobile. Immagino che questo brano lo stia ascoltando in cuffia anche Lou Reed, sorridente e fiero, ripensando alla sua “Make Up” (Transformer 1972, ndr) canticchiando all’unisono con Annie quegli incantevoli versi: “Gowns lovely made out of lace, And all the things that you do to your face…”
SAVIOR – Tra le più pop ma deboli di questo pazzo pazzo disco, risulta flemmatica come la struttura canonica su cui è sorretta. Un bridge che avrebbe potuto risolvere sagacemente il brano donandogli un po’ di brio si serve invece di un “pleeeease” nenioso che trascina nelle atmosfere dark Frozeniane della Madonna dei tempi di “Ray of Light” in un continuo “ritorno al futuro” che sembra essere il mood dell’intero disco.
NEW YORK – “You’re the only motherfucker in the city who can handle me”
Il primo singolo presentato è quello che, a detta del co-produttore Jack Antonoff doveva contenere una frase da tatuarsi – New York isn’t New York without you, love. Come darti torto Jack. Una sinuosa ballata senza età che canta della fine di un amore, di sofferenze in parte metabolizzate. Il ritornello dai toni epici è impeccabile e personalizzabile sulla pelle di noi tutti: “I have lost a hero, I have lost a friend”. Cosa abbiamo scelto e chi abbiamo perso? Un amico? Un idolo? Un amore? Di certo l’unica persona che poteva sopportarci.
FEAR THE FUTURE – Potente e dalle drum machine in stile trap, attuale e tagliente, caotica e pedante. L’esperimento continua ma si arresta sulla seguente YOUNG LOVER che proprio non convince. Sarà per gli urletti isterici che catalizzano l’intero brano o per il beat in cassa dritta che non allenta mai la presa.
DANCING WITH A GHOST e SLOW DISCO “… That I’m so glad I came, but I can’t wait to leave” I toni si dilatano nuovamente, le note sono pacate e contemplative.
SMOCKING SECTION – una linea melodica struggente per una ballad. Annie intensa che sussurra “is not the end” sciogliendo tutte le resistenze architettate durante l’ascolto di questo album destabilizzante, nevrotico, sincopato. Sembra quasi tenderci una mano nella speranza di trascinarla fuori da questo sipario di latex e riflettori per tornare nella nostra orbita, dopo una parentesi di pindarico distacco.
Giunti alla fine del disco si avverte la necessità di restare ancora qualche minuto seduti, come per osservare i titoli di coda di un film che ci ha lasciati interdetti ma incuriositi, del quale ancora non sappiamo dare un parere schierato ma che senza dubbio, nel bene e nel male, non ci ha lasciati indifferenti.