Il primo album degli Yombe si chiama GOOOD, è uscito il 24 novembre per Carosello ed è un toccasana: un disco pop stra-minimale e compatto, dal respiro futuribile e internazionale, curatissimo in ogni suo aspetto e frutto di un lavoro certosino e perfezionista. Raramente in Italia avevamo sentito un connubio così ben fatto di future R&B, hip-hop, pop, house e chissà quanto altro… e questo in fondo è solo l’inizio.
Recentemente apparsi su Boiler Room, Alfredo Maddaluno e Carola Moccia hanno le idee chiare su ogni dettaglio che riguarda Yombe. Abbiamo chiacchierato a lungo con loro, risparmiandoci la domanda sulla loro vita di coppia.
Complimenti per GOOOD, è un disco di cui si sentiva francamente il bisogno. Come avete lavorato a questo album? Ci sono state differenze di metodo rispetto all’EP?
Carola: Non abbiamo propriamente un metodo di composizione ma rispetto all’EP non abbiamo cambiato approccio di scrittura: abbiamo lavorato ancora una volta ciascuno per conto proprio e poi ci siamo scambiati quanto creato. Se il modus operandi è rimasto pressoché identico, rispetto al passato abbiamo avuto molto meno tempo. Infatti, gli interludi contenuti nel disco sono sintomatici di questa sorta di incompletezza: sono bozze di idee che svilupperemo ancora nei prossimi anni.
Alfredo: Sono appunti di viaggio che abbiamo voluto comunque mettere nero su bianco sebbene non abbiano ancora la forma di canzoni vere e proprie. Non escludiamo che possano essere l’incipit di qualcosa su cui lavoreremo prossimamente.
L’impressione che ho avuto appunto è che questi interludi siano una sorta di spoiler per qualcos’altro. Li svilupperete già dal vivo?
C: Dal vivo resteranno così perché non vogliamo anticipare i prossimi sviluppi di Yombe. Live presenteremo anche uno dei brani che avevamo scritto ma poi scartato per GOOOD.
Siamo davvero molto contenti di come abbiamo lavorato sul disco, rappresenta un passo in avanti decisivo anche da un punto di vista lirico e incarna al meglio il motto attuale di Yombe: “meno è meglio”. Abbiamo volutamente svuotato testi, suoni e arrangiamenti per dare maggiore rilievo alle parole e ai significati.
Come vi siete trovati a lavorare con un’etichetta dal roster molto variegato con Carosello? A prima vista potrebbe apparire un realtà distante rispetto al vostro progetto.
A: Carosello ovviamente adotta logiche e approcci diversi in base ai progetti che tratta. Il team dell’etichetta non ha mai voluto snaturare il nostro progetto e ha accolto l’entourage con cui già stavamo lavorando, lasciandoci la libertà di esprimerci e di seguire il nostro percorso con i tempi necessari. Il loro supporto è stato incondizionato.
C: Yombe è un progetto su cui lavorare senza ansie e angosce, anche servendosi di un approccio più intellettuale. È necessario procedere così, anche perché il nostro genere in Italia è ancora praticamente inesplorato. Siamo stati i primi a proporre questa nuova forma di R&B in inglese qui.
A: Secondo me non facciamo R&B.
C: La verità è che non saprei proprio come definirci. Si potrebbe dire electro-pop.
A: Meglio non definirci.
Secondo me definire il genere può servire solo ad orientare un primo ascolto. GOOOD racchiude in modo personale un sacco di belle sonorità, inquadrarvi in un solo genere non vi renderebbe giustizia.
A: Stiamo esplorando un territorio nuovo in Italia, questo è certo.
Da quando siete apparsi nel panorama musicale italiano, vi siete mostrati subito come un progetto ricco di sfaccettature e che prova a sparigliare le carte. Per qualcuno siete addirittura la next big thing. Avete avuto ansie da prestazione?
C: La vera novità per noi è stata quella di lavorare per la prima volta con delle scadenze: siamo partiti senza ambizioni e ci siamo ritrovati a dover dare il meglio di noi e a tirare fuori la malizia per ottenere un risultato che ci soddisfacesse a pieno. Per me è stato un esercizio interessante.
A: Abbiamo avuto ansia ma non la definirei ansia da prestazione, anche perché non sentivamo il fiato sul collo da parte di nessuno.
C: Il nostro approccio è stato molto low-profile e coi piedi per terra. Sarà perché siamo nichilisti.
A: Non ci andava di deludere quel pubblico che finora ci ha sostenuto e apprezzato, ma in questo momento in Italia la musica va verso altre direzioni quindi a maggior ragione potevamo permetterci il lusso di essere liberi.
C: Come Yombe ci sentiamo liberi di poter sperimentare, di migliorarci come performer e di cercare continuamente la dimensione più calzante per noi.
A: Possiamo esplorare senza limiti.
Il mercato italiano è per natura il vostro primo sbocco, ma avere già attirato l’interesse dei media inglesi o di Boiler Room dimostra che la vostra dimensione più congeniale è quella internazionale.
A: Assolutamente sì. È retorico dirlo ma grazie a Internet confini e distanze si riducono ed è più facile partecipare a festival stranieri o trovare ascoltatori all’estero. Essendo nato solo poche settimane fa un ufficio per l’esportazione della musica italiana, diventare protagonisti di una Boiler Room o far passare i nostri brani su una radio inglese è stato possibile solo grazie al web. So che è banale, ma è così.
C: Per noi è fondamentale intercettare ascoltatori stranieri, la stessa scelta di cantare in inglese mira proprio a superare i confini. Poi il fatto che Spotify UK o Boiler Room abbiano mostrato interesse per noi è una enorme gratificazione.
Il vostro set per Boiler Room è servito anche a presentare il vostro nuovo live. Cosa dobbiamo aspettarci, soprattutto dal punto di vista estetico? Siete una band molto attenta a questo aspetto.
A: Ho costruito un light-show con un sistema di 9 barre LED sincronizzate tramite una centralina ad Ableton, quindi a ogni traccia MIDI corrisponderà una sequenza. Sarà tutto gestito da computer, senza bisogno di un tecnico luci. Ci siamo resi conto che nello scorso tour mancava qualcosa a livello di impatto visivo: non volevamo retroproiezioni ma ci serviva comunque qualcosa di avvolgente. Le luci colmeranno la distanza.
C: Anche lo stile di abbigliamento sarà strettamente connesso al titolo dell’album, che riprende l’espressione inglese to be good at something. Il riferimento allo sforzo degli olimpionici gioca anche con questa definizione. Sarà un live più saltellante e sporty, ma sempre sensuale. Indosseremo tute, di sicuro staremo comodi.
Cercherete di esibirvi anche fuori dall’Italia?
A: È il nostro obiettivo per il 2018 e per questo cercheremo di organizzarci anche con un set alternativo e più snello per andare fuori dall’Italia. Non vogliamo però fare sporadiche comparsate in localetti, è una cosa che lascia il tempo che trova. È molto più utile a quel punto fare aperture a SEVDALIZA o Mount Kimbie e relazionarsi direttamente con artisti internazionali.
C: Puntiamo molto ai festival primaverili ed estivi. Siamo perfezionisti e cercheremo di fare tutto nel modo migliore.
D’altronde è inutile fare live promozionali all’estero di cui magari si ha notizia solo qui in Italia.
Siete sicuramente unici in Italia ma ponendovi su un mercato internazionale la concorrenza diventa più spietata. C’è poi il problema che spesso qui riceviamo in ritardo ciò che avviene culturalmente all’estero. Avete paura di essere in differita?
A: In Italia abbiamo sempre il difetto di dover attribuire il primato di qualsiasi cosa a qualcuno. Per me da musicista non è questo l’approccio giusto, io distinguo esclusivamente musica buona e musica cattiva. Negli ultimi anni c’è stata una forte riscoperta dell’hip-hop e black music: chi prima ascoltava gli Arctic Monkeys ora ascolta anche Kendrick Lamar. I nostri ascolti vengono da quell’universo lì, avevamo una forte matrice disco e black già quando suonavamo nei Fitness Forever, anche se con loro c’era anche un riferimento importante alla tradizione italiana di Piccioni, Umiliani e dell’easy listening). Oggi abbiamo a che fare con un discorso musicale del tutto aperto, su cui c’è una forte attenzione mediatica a livello planetario. Per quanto ci riguarda, cerchiamo di fare cose che non stanchino noi in primis, non a caso abbiamo anche scartato alcuni pezzi che avevamo scritto.
C’è qualcosa che non vi convince del mercato musicale odierno?
A: io trovo angosciante che i dischi abbiano una vita così breve, che gli ascolti siano sempre più frugali. Manca longevità.
C: Io invece soffro del fatto che in Italia l’inglese non sia ancora così parlato e quindi cantare in inglese è ancora considerato un limite: molte persone si perdono un aspetto molto importante della nostra musica. In generale, però, in questo momento c’è ancora poca attenzione verso la musica non canonica.
A: Basti pensare a Clap! Clap! che ha prodotto 3 tracce dell’ultimo album di Paul Simon senza essere minimamente menzionato dai grandi media nazionali.
La musica in Italia viene raramente considerata una cosa seria.
A: Bisognerebbe affrancarsi dai miti e osare, sperimentare. Creare una vera evoluzione della meravigliosa tradizione italiana.
C: C’è bisogno di un linguaggio nuovo, che non scimmiotti i miti e non si metta più in bocca parole che non appartengono al nostro linguaggio quotidiano. La musica italiana dovrebbe ritrovare curiosità verso ciò che succede nel mondo e provare a farlo proprio, senza indulgere in citazionismi.
Ci sono artisti italiani che stimate o sentite affini a voi come spirito?
C: Colapesce, Cosmo e M+A hanno un approccio internazionale e contemporaneo. Ghemon sta facendo un lavoro notevole e a livello di suoni non ha paragoni.
A: Poi ovviamente Populous, LIM, lo stesso Clap! Clap! di cui parlavamo prima. Sono progetti tutte diversi tra loro, ma tutti questi artisti mettono il naso fuori dalla porta e hanno un approccio poco “italiano”, per dirla con Stanis di Boris.
Voi siete di Napoli, che tra Liberato e Gomorra è al centro di una forte attenzione mediatica.
C: Napoli è sempre stata fantastica a partire dalla sua natura contraddittoria, per spirito è molto vicina ad altre capitali del mondo: è ricca di storia, folklore e contraddizioni, una città piena di ispirazioni e talenti. Vorrei che la musica e la cultura contribuissero a riportare ricchezza e innovazione.
A: La Napoli che viene raccontata oggi non è una Napoli inedita, i cliché non sono cambiati, semmai è il modo di raccontare la città che appare nuovo. Francesco Lettieri (il regista dei video di Liberato, ndr) per esempio ha fatto un grandissimo lavoro di narrazione, cogliendo sfumature e miscugli sociali autentici, rendendo poesia una realtà bastarda e contaminata come quella partenopea. A Napoli o si esagera con l’oleografia tralasciando il degrado e i suoi problemi oppure si rappresenta una realtà sanguinaria: la verità come sempre sta nel mezzo.