Off The Radar di Noga Erez è uno dei dischi più intriganti e ricchi di spunti tra quelli pubblicati nel 2017 e – non so se sia a causa della bolla indie italiana o meno – non mi pare se ne sia parlato abbastanza qui da noi.
Avevamo chiesto all’artista israeliana di raccontarci la sua collezione di dischi in occasione del Siren Festival di quest’anno.
Ora che Noga Erez è in procinto di tornare in Italia per due date – 8 dicembre al Vinile di Bassano del Grappa e 9 al Monk di Roma – ci è sembrato opportuno intervistarla. Siamo in periodo di classifiche e bilanci di fine anno: è doveroso parlare di lei.
Inevitabile partire da un ricordo del Siren…
È stato un concerto bellissimo e importante per noi, lo ricordiamo con estremo piacere. È stato il nostro primo show in Italia e abbiamo avuto ben due giorni di vacanza prima dell’esibizione, il che è raro in tour. Ci siamo riposati girando per Vasto e andando al mare: è stato divertente.
Immagino che andare in tour non sia l’esperienza più rilassante del pianeta.
È uno stile di vita molto stimolante ma impegnativo: non sei libero di scegliere completamente ciò che vuoi mangiare o come organizzarti la giornata, ma è eccitante esibirsi ogni giorno in un posto diverso, davanti a un pubblico nuovo.
Finora siamo stati in Europa e due volte negli Stati Uniti, di cui una per il SXSW. Nello specifico, Gran Bretagna, Germania e Francia sono stati i Paesi in cui abbiamo girato di più e dove penso il disco sia stato recepito meglio, ma è ancora troppo presto per fare bilanci.
D’altronde l’album è uscito solo a giugno. Perché avete scelto Off The Radar come titolo (molto azzeccato, per inciso)?
Off The Radar è una delle canzoni che più ci piace nel disco. Di solito pensi che ogni pezzo nuovo che scrivi sia sempre migliore dei precedenti, invece c’è qualcosa in quel brano che ci è sempre rimasto caro, a partire dal titolo. Penso che racchiuda al meglio tutti i messaggi e i suoni del disco, quindi dopo un lungo dibattito abbiamo capito che fosse il titolo giusto, capace di essere interpretato in modi diversi.
C’è molta eterogeneità tra i brani del disco, sia a livello musicale sia a livello testuale.
Ogni brano ha un suo processo creativo alla base e credo si percepisca questa differenza anche a un primo ascolto. La gran parte dei pezzi è nata da un beat: io e il mio compagno Ori Rousso nasciamo come beatmaker e siamo innamorati dei vari software per produrre musica e creare atmosfere. Per certi versi abbiamo un approccio molto hip-hop alla composizione, è la nostra comfort-zone. Siamo molto creativi, abbiamo un numero pazzesco di suoni e campionamenti registrati sui nostri smartphone. Ciò che conta comunque non è da dove parti, ma il risultato a cui arrivi: è fondamentale provare percorsi diversi quando la strada ti sembra troppo sicura e scorrevole.
Immagino quindi che amiate field-recordings e campionamenti.
È fondamentale per me creare di continuo. In passato ti serviva necessariamente uno studio di registrazione, oggi bastano pochissime attrezzature per essere costantemente attivi da un punto di vista creativo. È come essere fotografi o registi: guardi il mondo costantemente con lo sguardo di un artista. Molta della nostra musica ha come base intuizioni spontanee frutto di un singolo momento.
Definiresti la tua musica politica?
Io non ho mai considerato la mia musica propriamente politica, piuttosto credo che sia una provocazione: non una forma di fuga dalla realtà ma di confronto su di essa. L’obiettivo della mia musica è aprire una finestra su ciò che sta accadendo nel mondo a livello sociale. Per molti questo vuol dire essere politici, e certamente il fatto che provenga da Israele accentua questa considerazione.
Immagino che tantissime persone ti chiedano della situazione nel tuo Paese. La tua stessa storia di vita – cito ad esempio la tua esperienza nell’esercito – e ciò che racconti nei testi suscitano indubbiamente interesse. Non temi però che così si crei più attenzione per la tua provenienza piuttosto che per la tua musica? Magari ti chiedono continuamente di esprimere il tuo parere su ciò che hanno detto Nick Cave, Radiohead o Roger Waters sull’opportunità di esibirsi in Israele o meno…
Credo sia un’arma a doppio taglio: da un lato c’è chi è attratto dalla mia storia, dall’altra c’è chi invece è prevenuto, come se provenire da Israele necessariamente implichi un certo modo di pensare. Io non mi rifiuto di parlare del mio Paese e di raccontarlo nella mia musica, anzi. Credo però che in questo momento storico distinguere arte e artista sia praticamente impossibile, e non penso che sia un male. Sono molto incuriosita dalle storie di vita di un artista e sarebbe piuttosto naïf distinguere la produzione artistica e ciò che l’autore è, ascoltando la musica senza contestualizzarla. Essere israeliani è complicato: ci sono pochissimi artisti provenienti da Israele e famosi nel mondo, e penso che la storia contemporanea del mio Paese influisca in qualche modo.
Per non parlare poi di chi specifica ancora “musica al femminile” o ti paragona necessariamente solo ad artiste donne…
Chiaramente se si parla di un artista maschio invece non si specifica mai il genere. Questo è ancora il sintomo tangibile di una mentalità fin troppo radicata persino in quegli ambienti intellettuali che spesso pensiamo immuni a un certo modo di pensare. Possono esserci anche le migliori intenzioni dietro, ma dal punto di vista semantico la specificazione di genere sottintende chiaramente un pensiero maschilista preponderante nella società. Forse è davvero necessario specificare che ci siano donne attive artisticamente in un mondo ancora dominato dagli uomini? Bisogna lavorare parecchio sulla parità di generi.
Parlando di donne, quando ci hai parlato dei tuoi dischi preferiti hai citato Let England Shake di PJ Harvey come quello che ti ha fatto venire voglia di iniziare a fare musica. Com’è successo?
Tanti dischi mi hanno influenzata, ma quell’album lì è stato il punto di partenza di tutto nella mia vita di producer: mi ha insegnato come trattare la musica, come aprirmi ai suoi innumerevoli aspetti, come tradurre in note la potenza dei messaggi che voglio trasmettere.
Pensi di avere una missione, musicalmente parlando?
Quando scrivo, sento un’urgenza profonda che non è solo quella di farmi ascoltare da più persone possibili e di divertirmi. C’è un livello ulteriore: non scendo a compromessi, non seguo mai la direzione più ovvia, tendo sempre a pensare fino in fondo alle scelte che faccio artisticamente. Penso però che tutto questo non riguardi solo ciò che sono come artista, ma soprattutto ciò che sono come essere umano. Sono una persona sensibile, molto interessata a capire ciò che mi succede intorno e penso di non essere ancora arrivata a quel punto in cui riesco a tradurre in musica tutto ciò che sento.
Essere artista per me è qualcosa in più di divertirsi facendo musica.
C’è qualcosa di cui senti l’urgenza di parlare nelle prossime canzoni che stai scrivendo?
Ci sono cose di cui ho già parlato e che vorrei approfondire. Finora ho raccontato la mia vita, il prossimo passo sarà esprimere ciò che penso davvero: è una cosa che non ho ancora fatto, credo. In più, ora ho una maggiore percezione di essere davvero una musicista.
In quest’ultimo anno io e Ori abbiamo vissuto un sacco di esperienze che sicuramente confluiranno nel nuovo materiale e che contribuiranno a rendere il tutto ancora più personale e profondo.
Hai già qualcosa di pronto?
Nell’ultimo mese siamo stati a Berlino per scrivere e penso pubblicheremo a poco a poco delle canzoni che poi finiranno di certo nel secondo album. Non scompariremo per poi tornare all’improvviso.
Pensi che un disco in quanto tale abbia ancora un senso in quest’epoca musicale così fluida? Rimane sempre il modo migliore per pubblicare nuova musica, o basterebbero anche i soli singoli?
Secondo me non essere più obbligati a scrivere un disco è una vittoria per un musicista, perché c’è molta più libertà d’azione e non c’è più bisogno di riempire gli album con canzoni inutili solo per raggiungere una certa durata. In passato spesso si lavorava su alcuni pezzi giusto perché era necessario, quando invece l’artista avrebbe voluto buttarli via.
In tutto ciò, però, amo i dischi e voglio continuare a vedermi come un’artista da album.