Il mixtape è sempre stato un simbolo della cultura hip-hop.
Dai dischi masterizzati in casa e poi venduti agli angoli delle strade, passando per i milioni di downloads su siti come DatPiff, fino ad arrivare ai tape caricati solo su Soundcloud, l’idea di un progetto gratuito, spesso visto come regalo per i fan, e meno strutturato di un album ufficiale, attraversa la storia di questo genere.
Quasi tutti i migliori rapper degli ultimi 15 anni vantano un passato nel cosiddetto “mixtape circuit”: 50 cent e i Dipset ne vendevano per le vie di NYC, Lil Wayne e Gucci Mane hanno costruito parte della loro fama sugli innumerevoli progetti che rilasciavano a cadenza quasi settimanale, diventando i due maestri del mestiere.
Ma in questi ultimi anni non solo la modalità di diffusione, ma la stessa forma mixtape non è rimasta uguale: è cambiato, ad esempio, l’approccio ai beat.
Se una volta erano rigorosamente non originali (e così l’MC dimostrava la propria abilità su basi diverse dal solito) ora accade il contrario, con basi prodotte ad hoc e lavori più omogenei. Lo stesso Drake, che ottenne la prima vera fama proprio con il tape “So Far Gone” nel 2009, ha dimostrato quanto il mixtape fosse più un concetto piuttosto che qualcosa di definito da caratteristiche specifiche.
Con l’ottimo “If You’re Reading This It’s Too Late” del 2015, il ragazzone canadese creò un “mixtape” (così è sempre stato definito, mentre invece More Life è una playlist,
qualsiasi cosa voglia intendere) che stava praticamente all’opposto rispetto all’idea classica del tape: rilasciato a pagamento, con tutti beats inediti e privo della presenza di un DJ, che solitamente orchestravano le tracce e settavano il tono del lavoro.
Su questa linea si è mosso anche Chance The Rapper che col suo mixtape “Coloring Book” ha addirittura ottenuto il supporto di Apple e ha orchestrato una release gratuita sul servizio streaming di Tim Cook.
Insomma, se, da una parte, diventa sempre meno chiaro cosa caratterizzi un mixtape (la modalità di rilascio? un approccio meno ufficiale?), dall’altra, non possiamo che compiacerci per il buon numero di release di questo tipo che hanno visto la luce nel 2017.
Lavori innovativi come l’’attesissimo e caleidoscopico “Black Ken” di Lil B e il delirio acido e rockettaro di Playboi Carti, ma anche progetti più street davvero consistenti come “Designer Drugz 3” di Hoodrich Pablo Juan e l’eccellente “Project Baby 2” di Kodak Black ci hanno confermato l’ottimo stato di forma del tape.
Ma meritano certamente una menzione anche mixtape più stratificati, impegnati e lirici come “May God Bless Your Hustle” di MIKE (il nuovo Earl Sweatshirt, da tenere d’occhio) e l’incredibile “Fire Burns” del collettivo newyorchese Standing On The Corner (il cui complesso lavoro meriterebbe una analisi più approfondita), senza contare poi il regalo di San Valentino di Chief Keef, “Thot Breaker”, il viaggio cosmico in autotune di Pollàri o i bangers ghiacciati di Yung Lean in “Frost God” (che ha anche rilasciato di recente un disco impressionante).
E del resto, con un livello così alto, ha davvero senso tormentarsi per una definizione plausibile?
Il mixtape è morto, viva il mixtape!
– di Alessandro Longo