A Richard Russell devono piacere gli incensi, magari retaggio di qualche viaggio intorno al mondo, alla ricerca della connessione musicale perfetta.
La camera d’albergo in cui mi accoglie ne è infatti pervasa dall’odore, e durante la mezz’ora che passiamo insieme continua ad accendere e spegnere piccole micce che poi appoggia su un tavolino, accanto a un bollitore e delle casse.
È una camera lussuosa, di uno dei più storici hotel milanesi, eppure Russell è a suo agio senza scarpe, in jeans e smanicato Nike.
Richard Russell a dir il vero sembra il tipo di persona a suo agio sempre e ovunque; non perde mai la calma, pensa attentamente a quello che sta per dire, si prende lunghe pause se necessario. Non parla mai a caso, non ripete mai frasi scontate, e anche quando pensi che stia per dire qualcosa di già sentito è capace di aggiungere un guizzo, un dettaglio, che rende tutto interessante e a suo modo importante.
Sui dettagli, d’altronde, Richard Russell c’ha costruito una carriera e, più in generale, la sua vita.
È nato nei sobborghi nord di Londra, «un posto tranquillo, ma non necessariamente quello dove vorresti vivere» e quella calma molto inglese l’ha ereditata proprio da lì, dalle giornate passate a cercare, con musica e fantasia, una evasione dalla monotonia.
E non si può certo dire che non ci sia riuscito: se Russell è universalmente conosciuto per essere stato “il-produttore-di-Adele”, una etichetta limitante che pure è riuscita a lanciare XL Recordings – l’etichetta indipendente che fondò nel 1989 con Nick Halkes e Tim Palmer – in orbita, rendendola, di fatto, una delle tre label indipendenti più influenti al mondo; Russell ha continuato ad ascoltare, produrre e soprattutto cercare musica. Ha “scoperto” – un termine che non gli piace parecchio, ma tant’è – MIA, lanciato Jamie xx, prodotto un disco a Gil-Scott Heron, lavorato a più riprese con Damon Albarn. Con lo stesso leader dei Blur è partito poi per il Congo, costruendo il progetto DRC Music, pioniere della riscoperta world music che sta attraversando negli ultimi anni i media di settore occidentali. Per quanto possa sembrare una frase fatta, riassumere la carriera di Richard Russell è pressappoco impossibile.
Ciononostante il suo interesse per tutto quello che gravita attorno alla musica non sembra essere scemato.
Russell continua a chiedere la mia opinione sul disco (e so che l’ha fatto con tutti, per tutta la durata del media day italiano) e se ne sta lì, impassibile, ad ascoltarti, annuendo e accendendo incensi.
A 46 anni è arrivato al suo primo disco, Everything is Recorded, che esce manco a dirlo per la XL e che segna un momento fondamentale per la sua relazione con la musica.
È un album molto simbolico, pieno di riferimenti a fatti, cose e persone, un disco ambizioso, completo ma soprattutto maledettamente moderno. Dalle Ibeyi a Infinite (il figlio ventenne di Ghostface Killah), passando per il protetto Sampha e Giggs, fino ad arrivare alla nuova firma di Young Turks (l’etichetta satellite di XL) Kamasi Washington e Syd.
Everything is Recorded è un album intriso di soul, la cosa più vicina alla definizione di urban che potrete trovare in giro. Al grime si alternano le linee jazz, la delicatezza di Sampha (che ha pochi altri metri di paragone) e il sentimento delle Ibeyi. Ma soprattutto, Everything Is Recorded è il passo decisivo per mostrare al mondo il suono di Richard Russell, ossia dell’uomo che ha contribuito in modo significativo a plasmare la musica contemporanea.
Richard Russell oggi è diventato tante cose: produttore, label owner, musicista e, lasciami dire, un “entusiasta della musica”. Ma quand’eri bambino, qual era il tuo sogno? Cosa volevi diventare?
Volevo far parte del mondo musicale, senza dubbio. Fin da quando ho cominciato a fare il DJ in giro, lo facevo con molta serietà; avrò passato migliaia di ore ad esercitarmi e a perfezionarmi. Avevo circa 15 anni quando ho avuto la mia prima data, ma avevo cominciato a imparare già dai 14. Venivo dall’hip hop, quindi suonavo pressappoco come loro, con una classica formazione mix e due piatti, alla ricerca del break. Prima di allora avevo provato con la chitarra, ma non ho mai avuto la sensazione che potessi farci qualcosa, tipo suonare in una band o altro, appena ho incontrato il djing invece, mi sono detto “ok, questo è il mio mondo”. Riuscivo a esprimere davvero chi ero, ragione fondamentale per cui me ne innamorai. Si, amore è la parola giusta, fu davvero il primo amore per me.
Dalla tua famiglia invece cosa hai preso? Sei cresciuto in una casa dove si ascoltava tanta musica? Hai cominciato anche tu con i vinili di papà?
La mia famiglia era molto religiosa. C’era quindi un limite alle musica a cui potevo avere accesso, specialmente tramite loro. C’è stata però una cosa molto importante nella mia formazione musicale e che devo a mio padre: ascoltava spesso lo “spoken word”, credo di aver ascoltato centinaia di pezzi spoken word a causa sua. Aveva queste cassette dove potevi trovare di tutto, i Monthy Pyton ad esempio. E quello è un tipo di ascolto molto importante, perché sei li ad ascoltare e prestare attenzione ad ogni singola parola, non puoi distrarti perché non c’è altro. Credo che quello sia stato molto importante. Amavo moltissimo i Beatles sin da quando ero bambino, ma credo che i miei genitori non avessero nessun disco dei Beatles in casa, quelli me li procuravo da solo. Vicino casa mia c’era una sorta di biblioteca di vinili, dove potevi andare, prendere in prestito quello che volevi e ascoltarlo a casa. Le record library credo fossero qualcosa di abbastanza comune all’epoca. Un aneddoto simpatico è che tutto quello che prendevi lì era molto scratchato, e c’erano interi pezzi che continuavo a ripetersi in loop. C’è una canzone dei Beatles che, nella mia mente, suona ancora così, con quel loop, e ogni volta che la ascolto mi aspetto di sentire quel loop. Per rispondere alla domanda, la musica, più che venire dai miei genitori, rappresentava per me una sorta di fuga verso un altro mondo.
Mi parlavi di chitarra, e se non mi sbaglio suoni anche la batteria: quali altri strumenti suoni? E, poi, come provi a integrare quella conoscenza della musica nei tuoi pezzi?
Da producer ti concentri soprattutto sul suono, e se ti concentri troppo intensamente sugli strumenti perdi il senso globale del suono. Mi piace molto pensare in termini di suono, di texture, di atmosfera. Ti faccio un esempio: posso essere il migliore, in una stanza piena di gente, a dire come un determinato strumento dovrebbe suonare, ma non sono di certo il migliore a saperlo suonare. Ma ci provo, se non ho a disposizione di meglio, ci provo. La combinazione delle due cose funziona. Quando sono io a dover suonare cerco sempre di gravitare attorno a qualcosa di melodicamente molto semplice, diverso è il discorso per batteria e percussioni, perché lì sono in grado di ottenere quello che voglio con maggior precisione, mischiando analogico e digitale. Quelle parti quindi vengono spesso da me.
Sono poi molto felice di suonare i sintetizzatori, suono il basso e provo a farlo al meglio, ma mi piace quando c’è qualcuno nella stanza che lo fa meglio di me.
Per tutta la durata di “Everything Is Recorded”, e questo credo sia un retaggio della tua carriera da produttore, sembri quasi agire da direttore d’orchestra. Ti riconosci in questo approccio?
Sì, direi di sì. Ad essere onesto però non ho mai ben capito cosa faccia un direttore d’orchestra. Hai presente i movimenti che fanno, no? Sono formalizzati? O li fanno a caso?
Credo ci sia qualche tipo di sincronizzazione tra direttore e musicisti…
O magari sta solo ballando…
Probabile.
Una cosa però è certa, il modo in cui ti muovi può decisamente influenzare il modo in cui gli altri suonano. Succede anche in pista, ad esempio, se vedi gli altri muoversi farai in modo di suonare cose che li facciano continuare a ballare. E questo succede ance in studio; il modo in cui ti muovi in risposta a come e cosa qualcuno sta suonando può decisamente condizionare il suo operato. E questo poi ha un impatto sulla produzione. Credo molto in questa visione fisica della produzione, ed è per questo che preferisco avere, durante le session, tutti nella stessa stanza, in modo tale che tu possa sentire gli altri e comunicare con loro.
Vorrei cominciare a parlare del disco, e vorrei farlo partendo dal titolo: “Everything Is Recorded”. Mi sembra un titolo molto forte, molto sentito, che vuole comunicare qualcosa di molto profondo. È corretto?
Tu cosa credi che significhi?
Credo sia una sorta di statement che deriva anche dalla tua lunga carriera. Un modo di dire “tutto quello che fai nella vita, ha un effetto su quello che farai domani”. Tutto lascia delle tracce e in qualche modo forma il tuo futuro. Nel tuo caso, forma la tua musica, che risente di tutti gli artisti con cui hai collaborato, di tutto quello che XL è stata e continua ad essere.
Ci sono due modi di guardare a questa cosa: c’è quest’idea che ogni cosa che vedi non si trasformerà in niente. Nulla è per sempre, permanente, e quindi tutto quello che c’è, ad esempio, in questa stanza, prima o poi non ci sarà più. Ma, il fatto che tu la veda è permanente, è per sempre. La tua esperienza, la tua memoria della cosa, non ti abbandona mai. Da qualche parte un imprinting viene creato. E c’è qualcosa di veramente bellissimo in questa cosa, nel fatto che ogni singolo momento nella nostra vita sia importante e abbia un significato. Hai ascoltato il disco che ho fatto con Damon Albarn, “Everyday Robots”?
Sì, certo.
Ho usato un sample in un pezzo, un sample di Timothy Leary, un pezzo spoken world, dove lui dice «questa è una opportunità preziosa, siate consci delle fotografie che state scattando». Ovviamente stava parlando delle foto che scattiamo con la vista, con l’olfatto, con i nostri sensi. Quello è stato davvero l’inizio del tema centrale di “Everything is Recorded”, quel pezzo con Damon Albarn, “Photography (You Are Taking Now)”.
Parlando di sample: ce n’è più di qualcuno nel disco, vero?
Sì, assolutamente.
Qual è il sample di cui sei più orgoglioso? Sia per il modo in cui l’hai usato sia per il fatto stesso di averlo utilizzato…
So che può sembrare retorico, ma tutti i sample che uso significano tanto per me, altrimenti non li avrei utilizzati. Sono tutti lì per un motivo, e mi piace intenderli come una sorta di tributo all’artista in questione. È un modo per cercare di rendere giustizia a queste persone, per farle rivivere.
Mi sembra ti piaccia utilizzare anche tue vecchie tracce (o comunque tracce che hai prodotto) nei tuoi pezzi…
A quale stavi pensando?
Gil-Scott Heron?
Sì, da “Me and the Devil”, che a sua volta era una cover di Robert Johnson.
Nel disco riesci a fare una cosa all’apparenza molto semplice, eppure che ha delle difficoltà non banali: mescolare la black music con elettronica di stampo più europeo. Ci sono voci molto “black”, su strumentali che vengono da background, mondi, più elettronici. Ti ci ritrovi?
Per certi versi hai ragione, ma non credo di vedere le due cose come molto separate, non riesco a dare un colore così definito alla musica. Bob Dylan, per dirne uno, era molto soulful nella sua voce, Sufjan Stevens è incredibilmente soulful. Così come dalla black music arriva un sacco di sperimentazione elettronica. Hai ragione nel dire che questo è un disco multiculturale, senz’altro. Londra è una città multiculturale e, nonostante tutti i problemi del mondo, nello spazio dello studio non c’è niente che importi più della musica.
DRC Music, il tuo progetto con Damon Albarn è stato per certi versi pioneristico. Oggi tutto quello che viene dall’Africa è tornato a suscitate un grosso interesse, la “world music” è la big thing del momento, ma voi l’avete fatto prima e meglio. Qual è il ricordo più prezioso di quel progetto?
La comunicazione che puoi avere, attraverso la musica, con persone con cui parli una lingua totalmente diversa, è qualcosa di incredibile. La musica diventa davvero il linguaggio universale. Mentre io suonavo delle percussioni con la mia MPC, c’era qualcuno che mi veniva dietro usando magari le sue mani. C’è questa magia, e ti accorgi che qualcosa di speciale sta per succedere e questo ti fa sentire vivo. È un esperienza molto tribale quasi, una esperienza fisica.
Sei cresciuto ascoltando molto hip hop, e immagino anche molto grime. Qual è la tua idea sulla recente esplosione grime?
Credo sia incredibile. Ci sono artisti che stanno facendo la musica che vogliono fare, nel modo in cui la vogliono fare e l’audience è totalmente disposto a seguirli. Che è una cosa che ha perfettamente senso, ma nessuno avrebbe mai detto che sarebbe successo, si pensava che il rap americano sarebbe sempre stato dominante. A pensarci bene però, questo processo sta maturando un po’ in ogni parte del mondo; siamo arrivati a pensare che vogliamo qualcosa che suoni come noi, piuttosto che come gli americani. Non so se questo processo è in atto anche in altri campi, come il cinema ad esempio, ma nella musica (forse non nel pop), nel rap in particolare, la cultura locale si sta riappropriando un sacco dei suoi codici. E questo non può che far del bene a tutti.
Forse anche la nostra attitudine verso le altre lingue sta cambiando. Invece di ascoltare solo cose in italiano o inglese, mi capita di ascoltare cose in tedesco o francese, di cui non capisco una singola parola. Allo stesso modo la musica italiana, la trap ad esempio, sta diventando esportabile anche all’estero, così come anche in Italia si è più propensi ad ascoltare canti in lingue africane che non capiremo mai (penso ai diversi mix di Awesome Tapes From Africa)…
Sì, è verissimo, la gente sta cominciando ad essere più aperta verso cose e culture che non siano solo locali o americane. C’è sempre stata tantissima buona musica fatta non in inglese, che non è mai stata ascoltata solo per mancanza di predisposizione.
Nell’album ci sono parecchi artisti giovani che tu hai, passami il termine, “scoperto”. Si parla spesso di Richard Russell come un grande scovatore di talenti, ma come ci si sente a “scoprire” qualcuno?
Non ci ho mai pensato troppo in realtà, anche perché se parli con un artista, a loro non piace tanto dire di essere “stati scoperti”. Ti fa sentire come se fossi sotto una roccia e avessi bisogno di qualcuno che ti dica «uhm, sai che sei molto bravo?», e io non voglio essere quella persona. Penso piuttosto che durante il cammino artistico di ogni artista arrivi un momento in cui sentiamo di aver bisogno di qualche forma di incoraggiamento, di consiglio. È bello avere questo ruolo, anche perché ho avuto tante persone che mi hanno aiutato nel mio viaggio musicale, dandomi feedback e aiutandomi ad aiutare la giusta strada.
Si avverte nel disco una sorta di gap generazionale, come se ci fossero due generazioni musicali diversi a confrontarsi tra di loro, e a portare quindi idee e musica. È un qualcosa che hai cercato o che ti sei ritrovato in corso?
Sì, certo, quel gap c’è e credo sia evidente. Ma credo che solo facendolo, durante il processo, io sia arrivato alla conclusione che questo è parte di quello che faccio nella musica. Non ne ero mai stato pienamente cosciente, ma poi mi sono detto «oh, ora capisco». Lavorare con Gil-Scott Heron, poi passare a Jamie xx, avere Infinite che registra con Peter Gabriel; sono tutti ponti che sono felice di creare. E se ci pensi è anche quello che fanno i sample: i sample sono esattamente quella cosa lì, il nuovo che si plasma sul e con il vecchio. L’hip hop vecchio era una clash fra nuovo e vecchio, il modo in cui registriamo e produciamo è un incontro di vecchio e nuovo, gli strumenti analogici che incontrano i software moderni. È la ricerca dell’ora, dell’immediato che ti porta farlo: se integri il passato con il futuro ciò che ottieni è una qualche forma di presente.
Tenevo a farti una domanda, su un artista che è molto presente nel disco e che conosci meglio di chiunque altro forse, Sampha. Cosa rende Sampha così speciale?
È un artista favoloso in così tanti modi diversi. Ha tanti attributi musicali che sono speciali. La sua vulnerabilità non è nascosta e facendolo permette alle persone di sentire quello che lui vuole trasmettere a pieno. E questa è una caratteristica dei grandi artisti.
Non conoscevo Infinite prima del tuo album ed è stata una discreta sorpresa. Dove vi siete conosciuti?
Ero a New York a registrare delle cose da Alex Hampton, un ingegnere con cui a volte collaboro. Mi disse che Infinite era stato nel suo studio recentemente, dopo che io gli avevo chiesto di segnalarmi qualche voce interessante. Mi disse che dovevo assolutamente ascoltarlo, e aveva ragione perché subito dalla prima impressione la sua voce mi colpì, aveva quella specie di eco che mi ricordava l’house di Chicago, il gospel house e tutto quel filone. E le cose che ho poi registrato con lui risentono molto di quella mia impressione.
Cosa significa per Young Turks aver firmato Kamasi Washington?
Certamente è un bel segnale. Il suo suono è molto classico eppure molto entusiasmante. Non credo che il jazz sia veramente mai andato via, ma è innegabile che oggi sia molto presente, e questo grazie ad artisti come Kendrick Lamar o King Krule, e all’uso ce fanno del jazz. E Kamasi è certamente parte di questa rinascita, anche nella sua presenza fisica, nel modo in cui sta sul palco e quasi parla con il pubblico. Si comporta da vero leader, e può fare qualcosa di molto significativo per la musica.
Non abbiamo quasi mai menzionato la XL durante tutta l’intervista, ma c’era una cosa che volevo chiederti: cosa significa essere una etichetta indipendente nel 2017?
Credo sia davvero entusiasmante il fatto che tu non abbia più bisogno di una label oramai. Puoi tranquillamente fare quello che fa Chance the Rapper, e lui è un artista davvero enorme. E lo è in totale libertà, che oggi è probabilmente la cosa più importante per un artista. Certo, ti serve un buon team (e lui di certo ce l’ha), però le cose sono molto cambiate. Eravamo tutti più rigidi: devi avere una label perché devi avere accesso a determinate cose. E questa è una arma troppo potente.
Ora quel potere si è perso perché non hai più bisogno di un accesso, ora hai Internet e tante piccole label possono permettersi di fare da guida agli artisti più che garantirgli accesso. Si è costruito un ecosistema di cui le etichette indipendenti fanno parte e che garantisce una certa risonanza agli artisti.