La camera di Nicolò ha un balcone e da questo balcone si può assistere, circa a ogni ora del giorno, al brulicante spettacolo della Milano che non si ferma mai, più simile a un formicaio piuttosto che a una città. Quando nota il mio stupore, Nic mi ricorda che a Roma il traffico era anche peggio, che fare il pendolare voleva dire spendere tre ore della propria giornata immerso nel traffico della capitale. Una vita di routine, come tutti. Ieri università, oggi ufficio. Ma Nic possiede un piccolo segreto, una chiave che potrebbe aprire le porte di un’altra vita. Una chiave di nome Puertonico.
Ciao Nicolò! Probabilmente chi sta leggendo questa intervista si starà chiedendo chi sei. Prova a spiegarlo con parole tue. Chi è Nic e chi è Puertonico?
Semplicemente un ragazzo normale, come tanti, che piano piano sta cercando di fare ciò che secondo lui è meglio. Ne parlavo proprio ieri con Daniele [Danny il Campione, ndr]: concordavamo sul fatto che non stiamo creando dei personaggi. Potrebbe esser vantaggioso, ma non mi sentirei a mio agio nell’alienarmi da qualcosa che sono io. Quindi finché questa cosa della musica sarà sostenibile la vivrò in maniera diretta e personale.
Puertonico è la punta dell’iceberg, ma alle spalle hai anni di esperienze musicali e generi del tutto diversi da quelli in cui ti sei immerso ora. Qual è il tuo humus?
Superata la prima fase piuttosto eterogenea della mia infanzia (in cui spaziavo dai Linkin Park a Missy Elliott, per intenderci), al liceo ho avuto un periodo di blocco totale dove non ho ascoltato praticamente nulla per due anni, per poi tornare a gasarmi con i 30 Seconds to Mars, A Day to Remember, etc quando iniziammo a suonare. Ma il gruppo / genere che mi ha dato un’etica nel fare musica sono stati gli Incubus. Capii che volevo farlo come loro; ma non dal punto di vista musicale, più da quello dell’attitudine.
A 18 anni abbiamo quindi formato una band: le prime cover, i primi concerti fuori porta… iniziammo a uscire dai confini scolastici.
Una volta diventati grandi, abbiamo deciso di fondare il collettivo Talenti Digital, frutto della passione per musica e arte condivisa con un gruppo di amici del quartiere Talenti di Roma. In questo modo abbiamo potuto seguire strade personali divergenti, pur restando sempre presenti gli uni nei pezzi degli altri. In particolare io e Daniele avevamo sviluppato una simbiosi che non si poteva troncare di punto in bianco. Per questo credo che sia stata la soluzione al fatto che la vita ci abbia momentaneamente divisi.
Tra le altre cose sei uno dei tanti romani che si sono ritrovati a lavorare a Milano, senza rinunciare a scappare giù appena possibile. Com’è questa vita a metà tra pendolare e fuori sede? Quanto ha inciso sulla tua musica?
È stato forse uno dei fattori che l’ha rinnovata di più. Ha creato nuove dinamiche all’interno della mia vita: nuovi luoghi, nuove persone e quindi nuovi stimoli su cui riflettere. Puertonico nasce a Roma, ma si è concretizzato a Milano. Sicuramente fare musica in due città diverse nella stessa settimana è strano, perché ci si rende subito conto che ognuna delle due ha il suo mood, che ti tocca quando stai creando a seconda delle persone che vedi e delle sensazioni che provi.
“Spiegare le ali” è stato in qualche modo il grido di un ragazzo catapultato in una situazione a lui estranea, che vuole affermarsi “senza spiegare le ragioni”. Cos’hai voluto dire con questo pezzo?
“Spiegare le ali” personalmente è uno statement. Quando ho iniziato questo percorso, dovevo mettere in chiaro alcuni aspetti. Essendo io una persona piuttosto sensibile e introversa sotto certi aspetti, ho sempre cercato di “spiegare le ragioni”, le motivazioni del perché facessi certe scelte, senza poi applicarmi al 100%. E soprattutto in musica, dove da giovani spesso si rischia di lasciarsi influenzare troppo dai commenti e dai giudizi. Alla fine mi sono detto: “Ma fai quel cazzo che ti pare. Tira giù sto loop, ci canti e vaffanculo. Fallo”. Ed il pezzo è uscito di getto. In 10 minuti la traccia era finita e ho deciso di lasciarla pressoché intatta, perché, se l’impellenza di dire ciò che andava detto era così forte, era giusto lasciarla quasi immacolata.
Si spiega invece da solo il tema di “Amore crudele”. Anche se ora sei felicemente fidanzato, sembra che i momenti no trascorsi in passato abbiano segnato indelebilmente la tua musica. Che si presta per una storia così travagliata.
Cosa ci dici del pezzo?
Quando composi la base, provai subito a scrivere qualcosa, ma nulla mi sembrava adatto al messaggio che volevo far passare. Finché capii che era perfetto per parlare di ciò che avevo provato, che al tempo non sapevo se sarei poi riuscito a esprimere in quella maniera. Ovviamente tutti nella vita hanno vissuto un’esperienza d’amore fallimentare o dolorosa ed è un tema tanto importante quanto anche un po’ banale. Però ho pensato che partendo dalla mia situazione particolare potevo giungere a un qualcosa di più universale. “Amore crudele” ha richiesto molto tempo per essere perfezionato, ma in fondo lì dentro c’è tutta la mia vita, non c’è nessuna mistificazione. Scriverlo mi ha fatto rivivere un sacco di momenti passati, mi ha fatto ricordare quanto ho sofferto.
Tutti i tuoi pezzi si avvicinano per tematiche più all’ “universalità” tipica della musica leggera italiana tradizionale (da Celentano a Tiziano Ferro) piuttosto che alla concretezza e all’immediatezza del “cantautor-indie” che sta spopolando di recente (Carl e Franco come Frah Quintale). Ti senti più vicino all’edulcorato mondo pop o alla scena underground?
Personalmente sono molto affascinato dalle tematiche più concettuali, in quanto possono assumere una certa trasversalità se applicate in diverse situazioni alla vita delle persone, e questo mio pensiero trova un corrispettivo nella mia musica. Credo che le vicende più concrete della mia vita possano essere fraintese e quindi mi è sempre venuto spontaneo esprimermi in termini assoluti. Questa vicinanza alla musica leggera italiana è motivo di grande interesse per me, perché in questo modo allineo dei suoni non tipicamente nostrani a tematiche invece più attinenti al nostro passato. Spero che un mio pezzo possa essere considerato attuale anche tra due anni, ad esempio, in quanto non ho mai cercato di legare la mia musica a un qualcosa che possa essere compreso solo in un dato momento o in un dato luogo. Un pezzo di Vasco andrà bene anche tra cent’anni, per intenderci…
Per concludere. Essendo una delle tue prime interviste, sarebbe carino sapere cosa vedi nel tuo futuro di cantante. Dove ti vedi tra cinque anni?
Tra cinque anni? Sicuramente in un attico, a chillare in piscina oppure sperduto da qualche parte con una pala di soldi [ride, ndr]. A parte gli scherzi, tendo a non pensarci, perché ossessionarsi troppo con questo pensiero può portare a intraprendere percorsi non naturali, che invece sono importanti nella musica. Per ora il diktat è: fare. Fare tanto. Poi sicuramente ci sarà spazio per un EP o un album, ma credo che per adesso sia un po’ prematuro affrontare questo tipo di discorso.