Devotion, l’album che fece diventare i Beach House un genere musicale compie 10 anni. Vi raccontiamo di che sostanza è fatto un sogno. O meglio: un sogno-pop.
Ti senti solo stanotte? Spegni il televisore e abbassa le luci.
Ecco l’inizio del comunicato stampa che accompagnava dieci anni fa l’uscita di Devotion, secondo album dei Beach House, duo di Baltimora composto da Victoria Legrand e Alex Scally.
Narra la leggenda che Victoria e Alex, sodali dal 2004, abbiano registrato il loro omonimo di debutto in soli due giorni su un quattro piste quasi in preda ad un’urgenza compositiva, uno spirito fanciullesco di meraviglia e innocenza. Succede così quando due metà destinate a ricongiungersi si trovano.
Il risultato è una melodia dalla grana grossa eppure evanescente in cui trova eco tutto l’amore di Victoria e Alex per il pop degli anni ’60: la cadenza di alcuni pezzi della Motown, la purezza armonica dei Beach Boys, l’indolenza di Sonny&Cher di I’ve Got You Babe, la grandeur di You Don’t Own Me di Leslie Gore. Ma soprattutto: il pop del Brill Building, un edificio di New York dove, dal 1958 al 1963, autori come Phil Spector, Carole King e Burt Bacharach lavorano a stretto contatto con artisti ed editori musicali per consegnare alla storia centinaia di hit pop.
Ecco da dove proviene il sapore vintage della press release: da una fascinazione per quell’early pop che in Devotion viene espansa. Il processo di lavorazione a questo secondo disco diventa infatti non solo più lungo, ma anche più articolato: nelle interviste dell’epoca Victoria e Alex parlano di uno spessore melodico maggiore, una lucentezza ritmica, una stratificazione più curata dei suoni. La pasta sonora è qui più luminosa, rimpolpata e lussureggiante, resa espressiva da arrangiamenti quasi orchestrali.
Devotion ha permesso a Victoria e Alex di trovare un’identità, trasformando i Beach House in un genere musicale e un marchio di fabbrica: canzoni potenzialmente eterne filtrate dal prisma sfuocato di un sogno.
Una seduta spiritica. Un esoterismo.
L’affaccio su un mondo nascosto.
Un tesoro segreto. Un sogno che sa di velluto.
Un incantesimo pop.
Vecchie tastiere e chitarre dai toni pieni: il suono dei Beach House è simile ad un acquerello. L’acqua, come il riverbero, mescola tutti i colori.
Come nel paradosso dell’uovo e della gallina, pare quasi impossibile stabilire se è il suono dei Beach House a delineare il carattere delle canzoni o sono queste ultime a influenzare il suono. Una cosa è certa: è la glassa dei suoni a rendere così particolari i paesaggi delle canzoni.
In Devotion troviamo sei/sette organi, sicuramente i primi pezzi della loro infinita collezione di stranezze: il carattere del suono e la capacità di mescolarsi agli altri strumenti spinge Victoria e Alex ad un acquisto compulsivo durante i tour. La tastiera più usata in Devotion è la Yamaha PS-20, amatissima per le sue sfumature piene e ricche.
Una sonorità di organo cotta a puntino che si fonde con la voce possente di Victoria: in Wedding Bell assume i connotati di una diva d’altri tempi, in Gila è un misto di sussurro e posa statuaria, in Heart of Chambers è uno sali e scendi di toni, spesso armonizzata dalla chitarra di Alex che puntella e delinea l’evoluzione narrativa di ogni canzone con un’intensità e una brillantezza senza pari.
A completare il quadro, due elementi importantissimi: le drum machine in Devotion sono sì mescolati ad alcuni suoni di batteria dal vivo ma provengono dalle beat machine incorporate negli organi stessi; e ancora la registrazione analogica su nastro, un tocco caldo e imperfetto che porta con sé una naturale distorsione, un suono compatto e un riverbero spettrale.
Constant heart of my devotion
Must be you, the door to open
Home again, be here, be with him
Will I swim out of your ocean?
– Home Again
Chiacchierando con un amico appassionato di musica e tastiere vintage, è emerso come fosse forte, nella prima decade dei 2000, l’interesse per la storia del suono pop, per le tecniche di registrazione, gli studi, gli strumenti usati negli album storici. È qualcosa che in Devotiontroviamo massicciamente: le armonie vocali, l’impianto ritmico semplicissimo e ripetitivo (il classicissimo tambourine dritto affogato nel riverbero) o l’idea di riempire tutti gli interstizi sonori come nel muro del suono spectoriano.
Tuttavia nel caso dei Beach House la vicinanza al suono pop degli anni ’60, più che frutto di una decisione consapevole riguardo alla veste estetica da dare ai pezzi, viene da qualcosa di più profondo: una sublimazione soffusa, impalpabile, anche un po’ fantasma. E ancora, un’incredibile purezza nel momento della creazione artistica.
Victoria la definisce così: “essere testimoni mentre l’essenza della canzone emerge in superficie”, ovvero quell’attimo improvviso e immacolato in cui la canzone si manifesta. E quindi da una parte il songwriting, la capacità di fermare la canzone nel suo instante di meraviglia e di articolarne inizi, intermezzi e finali; dall’altra parte, conseguenza naturale, il songcrafting, la veste del brano. Perché anche l’arrangiamento deve essere permeato da un senso di magia e di intimità, di tensione e di infatuazione.
Proprio come un colpo di fulmine.
I Beach House di Devotion sono una porta che si apre su una dimensione di vissuto-non vissuto, di ricordi che non t’appartengono ma che hai dentro di te ugualmente.
Giorgio Tuma
C’è una cosa che colpisce subito dei Beach House aldilà dell’aspetto squisitamente compositivo e melodico. Victoria e Alex sono dei maestri nella capacità di veicolare profonde emozioni, creare empatia e sublimare ogni tipo di sentimento. Ricordo di averli scoperti una decina di anni fa dal vivo: scorsi sul palco un ragazzo seduto alla chitarra e qualcuno dietro le tastiere che faceva headbanging con i suoi capelli lunghissimi. Sentii una voce di una potenza emotiva devastante, permeata di lucentezza, senso di grazia e spleen, che riempiva ogni spazio.
Ecco, in Devotion c’è tutto questo: quella voce e quelle parole, quella chitarra sensibile e così compiuta in un dialogo con le parti vocali; e poi quell’intuizione geniale che ha contributo non poco a rafforzare e personalizzare il suono dreamy: l’uso della Yamaha PS20, una tastiera quasi giocattolo che ha una funzione di pura fluorescenza sul loro sound con quei due o tre timbri inconfondibili di organo e spinetta insieme alle batterie elettroniche incorporate. L’assemblaggio di elementi semplici e lineari e la creazione di qualcosa di così grande e personale li ha resi unici a loro stessi.
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A Devotion devo l’apertura di un capitolo della mia vita che ha qualcosa di mistico. Un po’ come quando si incontra il grande amore: non lo cerchi, è lui a trovarti.
Christaux
Fine novembre 2008, concerto dei Dodos alla Casa 139 di Milano. Entrato nel locale, sentii una musica venuta da un altro mondo. Qualcosa che, inconsciamente, stavo cercando da una vita: ecco il mio incontro con i Beach House. Rimasi impietrito, sconvolto, estasiato. Una voce unica che materialmente associo alla madreperla, un sound minimale ma allo stesso tempo ricco oltremisura, un songwriting semplice ma enorme, una capacità compositiva cristallina ma densa.
Devotion ne è un esempio fulgido: la voce calda e avvolgente di Victoria è canto e preghiera, notturno e una primavera, eterno dualismo.L’organo è un vento caldo sul quale le note di chitarra di Alex esplodono come bolle di cristallo: una musica che risulta epica anche quando la dinamiche rimangono basse.
Credo che il sound di Devotion sia stato il punto di partenza per tutti i lavori a venire: un suono generoso e riconoscibile, ogni volta ricco di esperienze. Più che un suono, uno stile che non si perde mai nelle mode. Ed è per questo rivelatore, di culto, eterno.