[su_spoiler title=”Riassunto (ovviamente SPOILER)”]
Darius su un forum si imbatte in un annuncio anonimo riguardante un pianoforte dai tasti colorati. Niente è specificato se non che se si è disposti ad occuparsi del trasporto, avere lo strumento sarà gratuito. Arrivato in una villa enorme nei sobborghi di Atlanta Darius viene accolto da Teddy Perkins, un uomo afroamericano profondamente inquietante che si è evidentemente sottoposto allo sbancamento della pelle e ad interventi di chirurgia plastica. L’uomo gli spiega che il pianoforte apparteneva al fratello Benny, famoso pianista in gioventù, ora affetto da una rara malattia alla pelle che lo costringe a vivere chiuso in casa e al riposo continuo. Dopo una serie di inquietanti situazioni in cui si scopre che il padre dei fratelli è stato abusivo con entrambi, Darius si imbatte, in cantina, in un uomo completamente coperto da panni e in sedia a rotelle, che lo avverte di andare a prendere un fucile nascosto nell’attico perché Teddy li ucciderà entrambi. Prima che Darius decida cosa fare si imbatte in Teddy che ha già preso il fucile e lo mette al corrente del suo piano di ucciderlo ed incriminarlo per l’omicidio dell’uomo coperto (Benny?). Con un colpo di scena però quando sembra che per Darius non ci sia più niente da fare l’uomo in carrozzina si palesa e prima uccide Teddy con un colpo di fucile, suicidandosi subito dopo. Darius è in stato di shock e l’episodio finisce con la polizia che porta fuori i corpi dei due uomini e prende anche il pianoforte, lasciando Darius traumatizzato e a mani vuote.[/su_spoiler]
Tutti i lettori di DLSO conoscono Atlanta, lo show ideato, interpretato, scritto, girato e prodotto da quel bel fusto di Donald Glover. E tutti i lettori di DLSO sono usciti storditi dalla prima stagione, commossi, divertiti e increduli rispetto a ciò che avevano appena finito di guardare. Va da sé quindi che la seconda stagione, tutt’ora in corso, sia stata preceduta da un’attesa frenetica fin qui lontana dall’essere disillusa.
La prima stagione di Atlanta era in qualche modo un grande dipinto eterogeneo e profondo, in cui si muovevano personaggi diversi che abbiamo imparato a conoscere grazie soprattutto al filo conduttore che è l’odissea personale del protagonista, Earn Marks, interpretato dallo stesso Glover.
Questa seconda stagione è fin qui diversa: abbiamo dei temi ricorrenti evidenti (il “put me on” e in particolare la “robbin season”) che mancavano nella prima, e soprattuto fin qui le puntate non sembrano far andare avanti la narrazione, non sembrano far evolvere la storia di Earn manager del cugino Paper Boi. Piuttosto in questa stagione sembra si stiano approfondendo i diversi personaggi, dotandoli di una tridimensionalità che effettivamente, pur essendo presente, non era lo scopo primario della precedente. Ogni personaggio ha avuto fin qui il “suo” episodio; passiamo da un grande ed intricato affresco a quadri di più piccole dimensioni, ma non per questo privi di particolari e profondità, anzi forse ancora più dettagliati e audaci.
Arriviamo quindi all’oggetto in questione di questo articolo, la sesta puntata intitolata proprio “Teddy Perkins”.
Il protagonista è Darius, il personaggio forse più innocente ed amato di tutta la serie, con il suo misto di filosofia spicciola che a volte colpisce inaspettatamente in profondità e buonumore contagioso. Fin qui Darius è stato quasi sempre uno spettatore, uno che si è lasciato trasportare dalla corrente sempre e comunque, mentendo inalterato il proprio aplomb e carattere a prescindere dalle situazioni in cui si trovava immerso.
In questo episodio invece il personaggio sarà costretto a reagire e a rispondere a situazioni fuori dalla propria comfort-zone (a dire il vero fuori da quella di chiunque) ma grazie alla scrittura a dir poco geniale e raffinatissima di Glover, lo farà in pieno stile Darius, mantenendo completamente tutte le caratteristiche che ce lo fanno amare.
Non si può però che partire da Teddy Perkins, il personaggio al centro degli intensissimi 34 minuti di questa puntata; d’altronde già il momento in cui lo vediamo per la prima volta stabilisce il tono di tutto ciò che sta per accadere. Teddy sbuca alle spalle di Darius uscendo dall’ombra e la sua voce sottile e acuta accompagnata dall’aspetto profondamente inquietante fanno correre un brivido lungo la schiena. A tutti credo siano venute in mente due parole precise, non appena il volto di Teddy è stato messo a fuoco: Michael Jackson.
È innegabile la somiglianza con il re del pop nei suoi ultimi anni, sia nell’aspetto che nella voce, così come nella tragica storia personale; un padre ossessionato dal successo dei figli a tal punto da costringerli ad ore di pratica sullo strumento, non lesinando punizioni corporali. In molti scherzandoci su hanno affermato come tutto il personaggio di Teddy potrebbe essere ispirato all’idea di un Michael Jackson ancora vivo e ormai vecchio e rinchiuso in una casa piena di ricordi, d’orrore e risentimento. Prima di continuare a parlare di qualunque cosa c’è una cosa che è bene sottolineare, che personalmente mi ha lasciato assolutamente attonito una volta scoperta, per altro solo tramite letture successive alla visione: Teddy Perkins è interpretato da Donald Glover.
Il nostro Childish Gambino ha vestito i panni dell’inquietante padrone di casa per tutta la durata delle riprese, rimanendo nel personaggio tutto il tempo anche sul set fra una take e l’altra, anche nell’interazione con gli altri attori e con i membri della troupe, come dichiarato dall’attore Derrick Haywood. Un lavoro sul personaggio assolutamente incredibile che ha lasciato tutti a bocca aperta in quanto Glover sparisce letteralmente dentro Teddy Perkins non lasciando traccia di sé.
Ma la vera protagonista di questa puntata è a mio modo di vedere una sola: la scrittura. Il lavoro fatto nel tessere la trama della storia è semplicemente eccezionale e stratificato su così tanti livelli che è tutt’ora impossibile razionalizzare del tutto quel che abbiamo visto. C’è la chiave di lettura per cui possiamo giudicarlo “semplicemente” un grandissimo esercizio di stile in un genere a metà fra il thriller e l’horror con sprazzi di comicità (Complex definisce, e a ragione, questo episodio come la cosa più vicina a “Get Out” di Jordan Peele fin qui mai realizzata), oppure possiamo vederlo come una feroce critica alla figura paterna e alla competitività insita nel mondo musicale, come una grottesca rappresentazione di come la fame di successo e di ricchezza distruggano il corpo e la mente, o ancora, come un episodio “regalo” al personaggio di Darius e allo straordinario talento dell’attore che lo interpreta, Lakeith Stanfield.
Possiamo vederla in questi modi e tantissimi altri, e sarebbero tutti giusti proprio in virtù del talento fuori dal comune di Donald Glover.
Nonostante si allontani in qualche modo dalle ambientazioni a cui fin qui eravamo stati abituati non percepiamo questo episodio come un corpo estraneo alla serie, ma come parte integrante di essa, quasi necessaria. Perché dopo il ragazzino con la faccia pitturata di bianco con lo sguardo da maniaco e il ragazzo transrazziale con la frangetta bionda, questo ci sembra un passaggio più che normale e perfettamente logico nella quotidianità anomala di cui questa serie è intrisa. Ma anche grazie all’uso geniale e perfetto dei riferimenti culturali pop, che siano del passato come Stevie Wonder, Nina Simone, Ahmad Jamal, Marvin Gaye e lo stesso Michael Jackson o del presente come Get Out, il cappello di Sammy Sosa o il rap – non venite a dirmi che quando Teddy spiega a Darius che “il rap è un genere divertente, ma che non è mai uscito dalla sua adolescenza” non sentite chiara e forte la voce di Childish Gambino che dice esattamente le stesse cose leggermente parafrasate nei suoi primi due album.
Donald Glover continua in un lavoro di narrazione seminale per un’intera generazione, nel racconto di una fetta di popolazione vitale per gli USA che mai sul piccolo (e forse anche grande) schermo aveva trovato spazio in modo così intelligente e creativo, fuori dagli schemi e allo stesso tempo all’interno degli stessi, al punto tale da creare un’empatia fortissima con il suo pubblico (la sezione commenti della pagina Facebook della serie è fra le più divertenti di tutte).
Atlanta continua ad essere intrisa in ogni poro di blackness e attualità in modo talmente sfacciato e allo stesso tempo sottile da lasciare quasi storditi. Questo episodio è forse l’estremizzazione di un concetto che sembra essere fra i più cari in assoluto a Glover: non si può parlare della comunità nera solo per stereotipi o luoghi comuni, ma questi si possono usare a proprio vantaggio come trampolino di lancio verso una narrazione diversa, poetica e profonda.
Un esempio di ciò è il finale mozzafiato di questo episodio che ci lascia totalmente confusi e piani di domande: chi era l’uomo in carrozzina? Era il fratello misterioso di Teddy, Benny Hope, il proprietario del pianoforte dai tasti colorati? È mai esistito Teddy, o è semplicemente l’alter ego creatosi da Benny e quello in carrozzina è il padre che lo ha costretto ad una vita di sofferenze in nome della grandezza artistica e ricchezza materiale?
Lì per lì la nostra mente si affolla nella ricerca di risposte che però per la natura stessa della puntata sono impossibili forse da trovare (troppi elementi ambigui, troppe lacune per esser certi completamente di una teoria o dell’altra) ma che in fin dei conti non sono neanche così importanti. Perché paradossalmente il dramma della vita di Teddy/Benny passa in secondo piano rispetto a quello che è stato costretto a vivere Darius nel frattempo. Quest’ultimo è stato costretto ad assistere alla narrazione di una storia che lui come tutti noi conosciamo bene, che è un topos comune nel mondo musicale dello spettacolo ma anche dello sport (non a caso sono citati esplicitamente i padri di Michael Jackson, Marvin Gaye, Serena Williams e Tiger Woods).
Darius come figlio del ventunesimo secolo ha visto uccidere e uccidersi davanti a lui un mondo vecchio che però in parte ancora gli appartiene: sempre nella scena finale il suo discorso corre proprio su questi due binari paralleli. Da una parte Darius condivide con Teddy i problemi con il padre che lui stesso ha sperimentato da ragazzo, dall’altra smonta la sua massima secondo cui “le grandi cose arrivano dal grande dolore“, affermando semplicemente che a volte vengono anche semplicemente dall’amore, in un rito di esorcizzazione di un demone che la società americana e in particolare la comunità afroamericana si porta dietro da sempre.
La chiusura del cerchio è poi eccezionale, perchè dopo questa catarsi finale ci ricordiamo che stiamo guardando Atlanta e che il tema principale di tutta questa stagione, la Robbin season, è stato pienamente rispettato: Darius viene derubato del pianoforte che era lì per ritirare, portato via come prova dalla polizia accorsa sul luogo e probabilmente anche di un po’ di quella sua innocenza fanciullesca che ce lo fa amare così tanto.