Intervista di Francesca Ceccarelli
Osservare il passato per guardare al futuro: è questo il segno che contraddistingue i Siberia, giovane band livornese, vedi cavalleria Maciste Dischi, che pian piano sta conquistando un proprio spazio nel nuovo vincente scenario indipendente. Nessun artefatto, addio bad boys, un ritorno allo stile new wave italiano che ancora oggi affascina. Eugenio dei Siberia ci spiega perché…
Dopo il primo lavoro In un sogno è la mia patria in cui c’era un approccio più idealistico, evanescente siete maturati e avete deciso di sporcarvi con la realtà che vi circonda: come mai questo cambiamento?
Ungaretti (mio idolo per cui ho una venerazione, oserei dire, di stampo quasi calcistico) diceva: non è possibile cambiare e progredire come autori se non si cambia e progredisce anche come uomini. Io credo semplicemente che chi scrive sia cresciuto, sia entrato in un’età diversa. L’adolescenza è per definizione il periodo in cui si scopre se stessi. Oggi credo che siamo nella fase in cui, più o meno definito chi si è, si cerca di andare a intervenire sulla realtà esterna. Per questo un disco pensato per la contemporaneità.
“Sai che la tristezza a volte è quello che vogliamo”, è questa la vostra definizione di dark pop?
Ci può stare, anche se in realtà il relativo neologismo “dark pop” vuole in generale identificare un ascolto semplice ma con tematiche complesse. Alcuni brani dei Baustelle li definirei tali (penso a La guerra è finita o La canzone del riformatorio), così come alcuni dei CCCP (Curami, Annarella) o di Tenco. Non facciamo niente di nuovo, ma vorremmo andarci a inserire in una tradizione e sublimarla, aggiornarla, renderla intimamente nostra e farle vivere una seconda giovinezza in un momento in cui i temi più seri sembrano essere drasticamente banditi dagli ascolti.
Avete detto rispetto a questo nuovo album: ““Abbiamo cercato di fare un disco classico, che suonasse attuale ma che con una grammatica diversa potesse esser stato scritto trent’anni fa o tra trent’anni. Ma soprattutto un disco che comunichi con i nostri contemporanei e coetanei, che alla fine sento essere i miei fratelli a cui voglio comunicare il mio amore, il mio dolore, la mia storia”. In effetti a sentirvi tutto ci si aspetta fuorchè dei ragazzi di vent’anni. In bilico tra Depeche Mode, Editors e dintorni, mi verrebbe da definirvi l’evoluzione 2.0 dei Diaframma, vi ritrovate?
I Diaframma li apprezzo per la loro sincerità, però non ho mai voluto far parte di una band di genere. Considero la vicenda di Fiumani abbastanza autoconclusiva, è una scheggia impazzita che proprio per la sua indefinibilità ha raccolto un nucleo di sostenitori, fra i quali umanamente mi autoiscrivo. Spero che il prossimo disco sollevi del tutto i dubbi sulla nostra originalità, comunque è sempre un onore essere accostati a band del genere.
Il vostro nome è stato ispirato dal romanzo Educazione siberiana, perché? Cosa vi ha colpito in particolare di quelle atmosfere?
Abbiamo avuto la fortuna di conoscere Nicolai Lilin anche di persona. Direi che in qualche modo il motto vuole essere “bellezza nella durezza”. Al di là della violenza e del senso di morte, ci sono scene molto tenui e colori pastello nei romanzi di Nicolai, specialmente nei rapporti con gli anziani e con le donne. C’è un certo quid di cavalleria, di poesia, che emerge nonostante il contesto. Questo è bellissimo.
A proposito… nel libro si legge: “Un uomo non può possedere più di quanto il suo cuore possa amare.”: vale lo stesso per una canzone?
In un certo senso sì, e la risposta si ricollega a quanto affermato nella prima domanda. Non credo sia del tutto possibile tirare fuori qualcosa di bello se quella bellezza non l’hai dentro. È necessario coltivarla, farci attenzione. Vi sono stati momenti della mia vita in cui sentivo di non poter scrivere cose belle perché mi stavo stordendo e non riuscivo proprio più a sentire quella voce, quell’anelito al bello e al vero che abbiamo dentro.
Restando sempre sui concetti, mi spiegate cosa intendete voi per “epica del dolore”? Mi avete spiazzato. In tempi in cui si ascoltano testi che ruotano su due tre parole e versi distorti, spesso senza nesso logico, siete stati una scoperta. Avvertite che il vostro giovane pubblico assimili davvero quello che cantate? Senza fare polemiche generazionali…o forse sì..
Io penso davvero che l’uomo sia ciò che mangia, nel senso che bisogna sforzarsi di dare in pasto al pubblico il meglio che siamo in grado di fare, e al tempo stesso parlando un linguaggio comprensibile. Io stesso non leggo un libro da anni, perché ho il telefono in mano e mi metto a guardare i video e i meme. È importante però che qualcosa di più elevato esista, affinché nel momento in cui te ne viene la voglia, ci sia a disposizione. Epica del dolore…si parla del fatto che è fondamentale dare il giusto valore alla sofferenza, non renderla essa stessa un prodotto, un brand. Penso ad esempio alle maglie, alle cover dei telefoni con scritto “Ansia”, “Xanax”. Il dolore è il più grande strumento di miglioramento che abbiamo, non possiamo perderlo così, non possiamo banalizzarlo così.
Proprio per i riferimenti di cui parlavamo sopra sareste perfetti per cantare in inglese (Strangers in the field of love esempio lampante), impresa ardua in Italia ma forse il caso di iniziare prima o poi, siete d’accordo?
Il testo è la parte della costruzione di un brano in cui mi “diverto” di più e non riuscirei mai a fare a meno delle possibilità offerte dall’italiano! Però inserire segmenti in altre lingue (conosco a un discreto livello sia francese che inglese) contribuisce a ampliare il ventaglio di ipotesi. È senz’altro una cosa già fatta, ma certe volte può essere bello sperimentare. Nel caso di quel brano, è venuto in maniera completamente spontanea, e sono sicuro che accadrà anche in futuro.
I vostri brani sono spesso irrisolti come giustamente spetta a dei ragazzi di vent’anni, ma vi pongo una domanda riprendendo un vostro inciso: se “davanti all’amore si vuole scappare ed è questo il nostro tormento”, quale è la vostra cura? Assodato che le correnti gravitazionali non sono sufficienti…
Ti rispondo con certezza: il ritorno al reale. Siamo una generazione imbottita di sogni, di illusioni, di canzoni, di diritti – io per primo e in maniera “terminale” – la soluzione credo stia nel “di meno” e non nel “di più”. Riceviamo ogni giorno una quantità smisurata di stimoli, ti parlo ad esempio della scelta del partner: tra Facebook, Instagram, app di dating, è quasi impossibile non essere soverchiati da una messe di volti, corpi, caratteri, per cui scegliere diventa impossibile. Dobbiamo cercare di tornare alla concretezza, perché le possibilità offerte dalla smaterializzazione della vita umana sono di difficile gestione. Ma sono fiducioso.
Tutte le foto realizzate da Matteo Casilli