Venerdì 22 giugno esce Love Junction, il disco di esordio per Friends Of Friends/La Tempesta di Lorenzo BITW, dove l’acronimo sta per “But in the weekend”. Abbiamo già avuto modo di ascoltare l’opera e siamo certi che entrerà nelle vostre playlist da ballare dell’estate alle porte. Se ne volete un assaggio, potete già farvene un’idea ascoltando gli EP che spoilerano il resto del lavoro.
Roma, Inghilterra e il mondo intero sono le coordinate geografiche dell’opera prima del producer romano, nonché della sua parabola di vita.
Nella Capitale Lorenzo nasce e cresce, a Leeds in Inghilterra perfeziona i suoi studi in music production ed entra in contatto con la club culture britannica e con premiate realtà radiofoniche del calibro di Rinse e NTS, al mondo intero – soprattutto a quello “portoghesofono” e all’Africa più nera – Lorenzo BITW si abbevera per produrre una elettronica contaminata, sporca, eterogenea e ballabile, arricchita da mille collaborazioni nate su Internet, spulciando tra i suoni più disparati del globo e annullando i confini tra dancefloor e dancehall.
Per parlare di Love Junction siamo andati a prenderci un gelato con Lorenzo BITW a Testaccio, ventesimo rione di Roma e da sempre archetipo di una romanità a cui lui appartiene e da cui guarda al mondo per creare la sua musica.
I gusti scelti da Lorenzo? Zabaione, cioccolato fondente e panna, rigorosamente con il cono.
Perché pubblicare un disco oggi, in un momento in cui la musica viene consumata in modo sempre più frenetico e soprattutto in un calderone come quello elettronico dove singoli, 7” e remix sono sempre stati all’ordine del giorno?
Per me pubblicare Love Junction ha una doppia valenza. A livello personale, mi serve per fare un punto sul mio percorso e nella mia vita. A livello di produttore, è l’occasione giusta per correre dei rischi e vincere delle sfide.
Tutte le tracce che ho fatto in passato e che hanno anche riscosso molto successo in Inghilterra mi hanno gratificato, ma alla luce dei cambiamenti in corso nel mondo del DJing fare questo album mi serve anche a uscire dalla nicchia.
Love Junction è il mio biglietto da visita, il mio certificato di esistenza come produttore e artista.
Il disco è ricco di collaborazioni.
Ho scoperto gli artisti che ospito sul disco tramite Facebook e Soundcloud e grazie ai social media stessi sono entrato in contatto con loro e abbiamo lavorato ai brani. Sono tutti featuring spontanei, basati sulla fiducia reciproca e sulla voglia abbattere le distanze geografiche tramite la musica.
Ti è mancato lavorare in studio con loro?
No, anche perché ho registrato tutto il disco in casa. Love Junction è un album molto attuale anche a livello metodologico, perché alle dinamiche da studio ho preferito fare il casalingo con Ableton e lavorare alle collaborazioni tramite note Whatsapp.
Come presenterai Love Junction dal vivo?
In questi giorni sto facendo le prove con un batterista perché mi piacerebbe conferire ulteriori dinamiche ritmiche al live, non necessariamente fedeli a quanto registrato da me su disco. Ho molte date in programma qui in Italia, vedremo in quali sarò da solo e in quali come duo.
Possiamo dire che ora, forte degli apprezzamenti ricevuti all’estero, il tuo obiettivo è farti conoscere qui da noi?
Sì, un po’ mi rodeva avere più successo all’estero che in Italia. Di certo ho sbagliato approccio io, perché mi auguravo che riscuotendo consensi fuori sarei riuscito a lavorare bene anche qui, sottovalutando le peculiarità del mercato italiano.
Ho cominciato a suonare come DJ e in Italia è difficile affermarsi in questo ruolo: è più probabile che ci si esibisca in dj-set parallelamente a un’attività da producer, mentre la figura del DJ in sé e per sé è ancora poco considerata.
Perché, secondo te?
Manca la club culture, mancano radio sul modello di Rinse o NTS e mancano locali che investano davvero sui resident-djs e sulla propria identità, a prescindere dagli ospiti di ogni serata. Per certi versi andare a ballare da noi è considerato ancora come “annamose a sfonnà”.
Ciononostante, è qui che ho deciso di vivere e alla fine penso che i primi risultati per me stiano arrivando. Quest’anno ho lavorato come dj a La Fine qui a Roma ed è stata una bellissima esperienza, forte dell’atmosfera che solo un piccolo club può darti.
Roma ha sempre avuto una tradizione elettronica molto forte.
Roma è una città legata simbioticamente alla techno, mentre le altre correnti dell’elettronica non ricevono ancora le dovute attenzioni.
Secondo me il problema è che in tutta Italia mancano i legami tra il grande e il piccolo, non c’è un punto d’unione tra le diverse dimensioni artistiche. Per l’elettronica e il mondo del DJing non ci sono quei luoghi di scambio tra grandi realtà e piccoli emergenti che invece si sono diffusi nell’universo indie.
Se ci pensi, negli anni ’90 a Roma c’era proprio questo: quella capacità di fare rete tra etichette, serate, rave e artisti ha portato l’attenzione di mezzo mondo su ciò che stava accadendo nella Capitale. Oggi invece c’è una polverizzazione molto forte di generi musicali e ancora poco contatto tra le realtà. Forse Firenze ha rappresentato un’eccezione, come dimostrato da Clap! Clap!, Ckrono, Slesh, Andrea Mi etc.
Probabilmente però 10 anni fa un’etichetta di tradizione indie rock come La Tempesta non avrebbe mai pubblicato il tuo disco. Oggi anche in Italia ci sono meno distanze tra i generi e finalmente un ascoltatore può passare da Calcutta al rock più scuro passando per Four Tet.
Hai ragione, e su questo anche le line-up eterogenee di festival come il Primavera o il Siren hanno influito. Nonostante le criticità di cui ti ho parlato, io sono davvero felice del periodo musicale che stiamo vivendo in Italia.
Manca il coraggio da parte degli artisti mainstream italiani di farsi produrre il pezzo da uno come te o come Populous. Se è vero che Calcutta scrive un testo per la Michielin e lo stesso fa Tommaso Paradiso per Carboni, manca l’equivalente di una Madonna che si fa produrre i brani da Diplo.
Indubbiamente c’è un cambiamento in corso e si sono creati spazi e commistioni impensabili fino a pochissimi anni fa, ma c’è bisogno di un coraggio ulteriore. Un esempio virtuoso ad esempio è MYSS KETA. Se ci pensi invece Major Lazer ha avuto relativo successo in Italia ma qui c’è pochissima traccia di dancehall nel pop. Ci arriveremo però: un giorno produrrò un pezzo per un artista a Sanremo (ride, ndr).
Cambiando argomento, come ascolti la musica e come la scopri?
Mi capita spessissimo di ricevere brani da ascoltare, altrimenti uso abbondantemente Soundcloud. Ammetto che spesso lego i miei ascolti all’attività di DJ e valuto i pezzi in base alla loro potenzialità in un mio set, ma riesco anche a prescinderne.
Non mi piace invece ascoltare tramite Facebook.
Il disco che ti è piaciuto di più ultimamente?
L’ultimo di DJ Koze.
La tua musica è ricca di influenze musicali provenienti da mezzo mondo, dal Brasile al Portogallo passando per il Ghana. Non hai paura però che artisti come te possano essere tacciati di “appropriazione culturale”?
Secondo me tutto dipende dal modo in cui lavori, soprattutto su Internet dove appropriarsi di un contenuto altrui è facilissimo. Se io inserisco influenze dancehall o afrobeat nella mia musica mi assumo il compito di spiegare che cos’è e da dove viene, di offrire un immaginario e di collaborare anche con chi la fa, nei luoghi in cui certi generi nascono. Gli artisti con cui ho lavorato vengono dall’Africa, dalla Giamaica e grazie a questi featuring ora sono stati contattati da altre realtà europee e americane. Sarebbe stata appropriazione culturale se mi fossi semplicemente limitato a campionare un brano del Ghana preso da YouTube.
Il mio obiettivo è anche far scoprire musica tramite la mia e soprattutto di essere sincero nel mostrare ciò che sono, senza farmi le foto sotto i palazzoni di quartieri a cui non appartengo o scimmiottando estetiche che non sono mie.
Pochi mesi fa sono stato a Parigi e mi sono trovato in una serata dove i dj passavano musica raï maghrebina e canzoni turche o rivisitavano in chiave elettronica la musica tradizionale del Mali.
Sarebbe bello se ci fosse anche qui qualcosa di simile: c’è poca curiosità verso la musica non occidentale e soprattutto ci possono pochissimi artisti africani o sudamericani che fanno musica qui, slegati dai soliti contesti di diffusione. Ci vorrebbero banalmente anche più italiani di seconda generazione attivi musicalmente.
Foto di Livio Ghilardi, post-produzione di Susanna D’Alessandro