Di one-hit wonder – meteore da un tormentone e via – la club culture è piena zeppa. Se ci pensate bene il colpo grosso del successo da dancefloor è tutto sommato nemmeno troppo difficile da mettere a segno. Il vero problema è riuscire a costruire una carriera di lunga durata una volta ottenuto quel tipo di risultato. I tedeschi Âme sembrano essere tra quelli – a dire il vero pochi – che hanno cercato la longevità artistica senza sentire la necessità di ripeterne il successo commerciale a tutti i costi. È chiaro che il peso che una enorme hit come la loro Rej ha portato e porta con sé è schiacciante, oltre che irripetibile, ma con questo loro “Dream House” viene anche messa in chiaro l’intenzione di emanciparsene ad ogni costo. Frank Wiedemann e Kristian Beyer sono andati a cercare le necessarie alleanze al di fuori del mainstream della dance, collaborando con i connazionale Gudrun Gut e Hans-Joachim Roedelius, oltre che con Matthew Herbert, Planningtorock e Jens Kuross. Ciascuno dei partecipanti al progetto lascia una chiara e personale impronta: meno riusciti i casi di Herbert e Gut, prevedibili e piuttosto ingessati nello sforzo di dare di se un immagine di “autori” – contrapposta a quella di semplici produttori e musicisti – decisamente più interessante invece il lavoro con l’ultra ottantenne Roedelius. Convincono più di tutti gli episodi in cui gli Âme si prendono la libertà di essere solo se stessi. In Positivland ad esempio, un riuscito connubio tra kosmische musik e balearica che vede la partecipazione di David Lemaitre alla chitarra, o la deliziosamente melodica Oldorado.