Da stasera 6 luglio a domenica 8 a Chiusi, in provincia di Siena, torna uno dei festival più belli e caratteristici del centro Italia: Lars Rock Fest.
In questa edizione, ogni sera c’è un headliner internazionale di assoluto livello e, soprattutto a ingresso gratuito. Si comincia stasera con il Noise Set dei The Pop Group, si continua domani 7 luglio con il post-punk dei Protomartyr e si chiude in bellezza domenica 8 con i Japandroids. Insieme a loro, una serie interessantissima di artisti, dai Delta Sleep agli Indianizer, passando per gli His Electro Blue Voice, e la leggenda jazz etiope Hailu Mergia.
Per prepararci al festival, abbiamo intervistato David Prowse, batterista e voce dei Japandroids, in attesa di scoprire quando uscirà e come sarà il nuovo album del duo canadese.
Come è andato il tour finora?
Finora alla grande. Ci stiamo concedendo il lusso di suonare esattamente dove avremmo voluto e siamo riusciti a esibirci in posti finora sconosciuti per noi, come la Russia o l’Est Europa. In questo momento (l’intervista telefonica si è svolta nel pomeriggio del 5 luglio, ndr) mi trovo davanti a un lago stupendo in Ungheria, ieri abbiamo suonato a Budapest e stiamo andando in Slovenia per esibirci a Lubiana. Dovresti vedere anche tu il panorama che sto guardando ora, è incredibile.
E a brevissimo tornate in Italia.
Sì, sono molto eccitato all’idea di suonare al Lars, ho visto delle foto della Toscana e sembra un posto stupendo. In Italia ci siamo sempre trovati benissimo, ricordo un locale bellissimo a Roma, il Circolo degli Artisti.
Purtroppo è chiuso da qualche anno.
Oh che peccato, era davvero una bomba.
Cosa state ascoltando durante i viaggi tra una data e l’altra?
Guarda, stiamo girando in pullman, treno e aereo, quindi in base al mezzo cambia anche la scelta del sottofondo. Era da un po’ che non giravamo in van, e in questi giorni stiamo ascoltando tantissimo la compilation Welcome To Zamrock, una retrospettiva sulla musica rock in Zambia. È incredibile. Tra le band presenti ci sono i WITCH, progetto partito sulla scia del garage rock e che poi ha via via incorporato elementi soul e funk. È bello ascoltare compilation quando sei in giro, ti permette di spaziare tra voci e stili diversi.
Un altro artista che ascoltiamo spesso è Jonathan Richman, da quando l’ho visto live capita spesso di riascoltarlo: è emozionante vederlo su un palco, sembra proprio che sia nato per stare lì e non fa nessuno sforzo per sembrare a suo agio. Ha una bella spontaneità.
È passato un anno e mezzo dall’uscita di Near to the wild heart of life. Vi piace ancora?
Ahahahaha sì per fortuna sì, siamo molto orgogliosi di quell’album e siamo felici che le canzoni si siano evolute suonando live in questo anno e mezzo. Ecco, se proprio dobbiamo trovare un piccolo rimpianto, ci dispiace aver scritto quelle canzoni mentre non eravamo in tour. A furia di suonarle sono cresciute e sono diventate migliori, quindi sicuramente per il prossimo album sceglieremo materiale composto durante i tour, perché così ci è più chiaro il risultato finale.
Stiamo già suonando nuovi brani praticamente ogni sera, stiamo scrivendo pezzi di continuo. Stavolta non ci vogliamo mettere altri quattro anni.
Rispetto ai due dischi precedenti, Near to the wild heart of life era un album più pulito, più dolce se vogliamo. È stata una scelta, vero?
Sì, volevamo liberarci dall’urgenza dei primi due dischi, provare a scrivere qualcosa di più ricco e complesso e vedere di cos’altro eravamo capaci.
Adesso in che direzione state andando?
Non te lo saprei dire, è presto per valutarlo. Di certo i brani nuovi che stiamo suonando sono più aggressivi ed energici, come se volessimo riscoprire quell’urgenza da cui appunto volevamo distaccarci. Uno dei brani mi ricorda i Cramps, sembra molto blues, mentre l’altro è un pezzo più post-punk ma molto caldo a livello di vibrazioni che trasmette. Staremo a vedere.
Come sempre la prossima copertina sarà in bianco e nero con una fotografia di voi due?
Penso proprio di sì, ormai è una nostra tradizione. Ci piace perché è una soluzione diretta e d’impatto, senza troppi fronzoli. La semplicità funziona sempre.
L’anno prossimo saranno trascorsi dieci anni dal vostro esordio, Post-Nothing. Come vi sentite a riguardare indietro?
Quando ripenso a quel periodo – e mi riferisco anche ai mesi prima dell’uscita del debutto – vedo tanta innocenza, un’ingenuità col senno di poi positiva. Non avremmo mai immaginato che qualcuno ci avrebbe ascoltato per davvero e nemmeno noi ci prendevamo chissà quanto sul serio. Speravamo di farcela, ovviamente, ma non eravamo per nulla convinti di riuscirci.
Niente di paragonabile rispetto a quando fai successo e vieni sommerso da ansie, pressioni, dubbi. Subito dopo Post-Nothing ci chiedevamo sempre “quanto durerà?”, è stato un momento eccitante ma anche duro a livello di aspettative, perché sapevamo di avere qualcosa da perdere.
Da Celebration Rock in poi, invece, abbiamo imparato a gestire meglio la nostra emotività, è tutto più rilassato e abbiamo guadagnato sicurezza e serenità: sappiamo come divertirci e ci rendiamo conto di quanto siamo fortunati a fare la vita che facciamo.
In conclusione, ti chiederei di spendere qualche battuta sul vostro Premier, Justin Trudeau. Agli occhi degli italiani sembra davvero un extraterrestre.
Guarda, io mi ritengo di sinistra e Trudeau per me è un centrista, ma ammetto che ha fatto tanti sforzi per superare i decenni di conservatorismo che hanno afflitto il Canada. Dalla legalizzazione della marijuana per scopo ricreativo all’accoglienza dei rifugiati, sta facendo benissimo su temi che io do per scontati, ma la maggioranza del pianeta no. Basta fare un raffronto con il vicino Trump, ascoltare ciò che dice sugli stranieri o sulle donne, per sentirmi orgoglioso di essere canadese. Poi per carità, su alcune questioni sono critico nei confronti di Trudeau, ma in generale possiamo dirci soddisfatti.