Oddisee rappa e produce.
È sulle scene da più di dieci anni, con all’attivo circa una quindicina di progetti discografici fra album e mixtape. Oddisee, al secolo Amir Mohamed el Kalifa, è riuscito negli anni a costruirsi un suono definito e personale, uno dei più interessanti e facilmente riconoscibili del panorama mondiale hip-hop.
Il fascino e la cifra stilistica di Oddisee si possono riassumere in due parole: classe e intelligenza. La classe la si percepisce dalle basi che lui stesso produce, intrise di orchestrazioni raffinate, suoni senza tempo e beat al caramello; l’intelligenza invece nelle parole che pronuncia su queste basi, senza peli sulla lingua e con tanta sostanza.
Sono state proprio di questa pasta le cose che mi ha detto durante la nostra chiacchierata telefonica, in vista del suo concerto romano al Parterre – Farnesina Social Garden, evento organizzato da Roma Jazz Fest insieme all’Alcazar Live.
Ciao Amir, grazie per il tuo tempo. Come sta andando il tour?
È un piacere, no problem. Fino ad ora tutto bene, niente di cui lamentarsi.
Sono più di dieci anni che rilasci musica come Oddisee, e non hai mai abbassato la qualità, ti sei sempre mantenuto su uno standard qualitativo molto alto. Come pensi di esserci riuscito?
Credo dal comprendere che è lavoro. Capire che è una professione e che se una qualunque persona nel mondo smettesse di fare il proprio lavoro, semplicemente lo perderebbe.
So che fra le tue influenze principali ci sono i numi tutelari dell’hip-hop, gente come Rakim, De la Soul, A Tribe Called Quest. Sono curioso di sapere se c’è qualcuno della scena attuale che ti piace e che ti ispira in modo simile a quei mostri sacri.
Certo, ogni generazione di artisti hip-hop ha grandi interpreti, non solamente quella “originale”. Ci sono parecchi artisti che sono attivi oggigiorno che ascolto e che mi piacciono. Sono un grande fan di Drake, amo molto ciò che stanno facendo i Migos e poi ascolto tantissimo un album di Key e Kenny Beats, “777”, mi piace parecchio. Ho amato anche il nuovo album di Freddie Gibbs.
A livello musicale, trovo che la tua musica spicchi per un elevato gusto per i suoni “organici” e orchestrali. Le tue produzioni suonano sempre bene e molto “vere”, specialmente quando usi i fiati e le chitarre. Questa cifra stilistica è qualcosa su cui hai lavorato molto nel corso degli anni o è sempre stato qualcosa di naturale per te?
Credo sia stata semplicemente un’evoluzione naturale. Vengo da una città che apprezza ed è intrisa di tanta musica diversa, un sacco di membri della mia famiglia suonano strumenti e penso che semplicemente l’influenza di ciò che ho attorno si sia insinuata nella mia musica e poi nel corso degli anni tutto questo si è evoluto nel mio stile di produzione e di composizione.
Non posso dare crediti a me stesso e dire che ero conscio di questo processo o che ne sono stato direttamente responsabile, credo che l’ambiente in cui sono cresciuto e in cui vivo sia più responsabile per il mio suono di quanto lo sia io.
Allacciandomi a quest’ultima domanda, il tuo flow si incastra perfettamente sulle basi da te prodotte. Trovi più facile rappare quando ci sei tu in veste di produttore piuttosto che adattarti allo stile di qualcun altro?
Mi piace decisamente rappare di più su mie produzioni piuttosto che quelle degli altri. Mi piace ancora registrare su produzioni “esterne” ma trovo che sia più facile e più appassionante per me quando lo faccio sulle mie produzioni. Questo perché quando hai la libertà di produrre la musica su cui poi rappare, sei conscio di tutte le sfumature, di tutte le piccole differenze e dei ritmi giusti, ti approcci quindi in modo differente alla scrittura perché capisci in modo più intimo com’è nata la composizione di quella traccia.
Parlando con un po’ di persone, ho notato che molti non avevano realizzato che fossi americano e ti consideravano europeo. Se è vero che qui in Europa molti ti hanno scoperto grazie al featuring con 20syl, forse ha più che altro a che fare con il tuo stile e la tua estetica. Cosa ne pensi?
Trovo sia una cosa molto interessante: significa che le persone non stanno ascoltando molto le parole, perché i riferimenti alla mia città (ndr Washington) sono costanti. Per me significa che molti non investigano più, qualcosa che credo ormai sia accettato dalle persone, sia uso comune. Ad esempio non ci sono più copertine degli album da leggere, o libretti interni, dove si leggevano i crediti, aneddoti etc., queste cose non esistono più. Capita che una persona ascolti un brano su una playlist e giunga a delle conclusioni del tutto personali. Nei miei brani e nei miei album ci sono tonnellate di riferimenti alla realtà da cui provengo quindi per me questa cosa è esilarante; le persone non fanno più ricerche oltre la superficie, la prima cosa che vedono o ascoltano diventa quella su cui costruiscono la propria realtà e narrativa personale. Non sono sorpreso affatto da tutto ciò, significa principalmente che le persone non leggono più, non c’è per forza malizia o cattiveria dietro e poi non appartiene solo a un paese o un gruppo specifico di persone, succede anche in America di continuo.
Nel tuo ultimo album “The Iceberg”, prendi posizione in modo poetico ma soprattutto molto intelligente su quello che sta succedendo in America e più in generale nel mondo. Parli di argomenti complessi e delicati (come in “You Grew Up” e “Like Really”) senza usare rabbia o pregiudizi ma cercando di arrivare al cuore delle cose, di capire da dove provengano i problemi. Pensi ci sia ancora spazio per empatia e intelligenza nel mondo, nella musica?
Sì, decisamente, penso ancora che ci sia spazio: se devo essere onesto però ci è voluto il rilascio di quest’ultimo album per farmi realmente realizzare che è una battaglia che si sta perdendo, che per ora è stata persa. C’è ancora spazio per intelligenza ed empatia, ma non se la stanno passando bene, mettiamola così, non sono molto ottimista al riguardo. Ho dedicato un album (n.d.r. The Iceberg) alle persone che vanno a fondo, oltre la superficie, per cercare di capire perché le cose sono come sono; senza manifestare rabbia o aggressività nei confronti dei soggetti che ho trattato, ma solo per metterli in mostra, sperando che le persone si sarebbero fatte delle domande e sarebbero nate conversazioni l’uno con l’altro.
Da quello che posso vedere non ha avuto quest’effetto, le persone, come sempre fanno, hanno continuato a credere nella propria narrativa, e tutto ciò che desiderano e vogliono credere è poi quello in cui credono, invece di provare a guardare le cose attraverso una diversa prospettiva. Mi ha fatto realizzare che, ovviamente, un album non cambierà il mondo e probabilmente neanche le persone che ascoltano quell’album; prima dell’uscita di The Iceberg non avevo immaginato che il livello di ignoranza esistente al mondo fosse così forte.
Prima hai fatto cenno alla tua famiglia. Tua madre è afro-americana, tuo padre è sudanese. Com’è stato vivere le ultime elezioni e quest’ultimo anno con loro, come si relazionano, se lo fanno, ai messaggi che provi a convogliare nella tua musica?
Mio padre è tornato in Sudan nel 2007 e da allora non ha mai rimesso piede in America. Non gliene frega un cazzo di ciò che sta succedendo con Trump, non è più affar suo, è tornato a casa sua. Mia madre è afro-americana e che ci sia Obama o Trump o chiunque ci sarà dopo… Non cambia niente nella “black America”. C’è un forte livello di indifferenza proveniente dall’America nera, perché chiunque sia stato presidente non è mai cambiato niente, un argomento che ho affrontato sempre in “The Iceberg”, in “Never Not Getting Enough”: il primo verso fa “cosa c’è di cui aver paura, vengo dall’America nera, è solo un altro anno”.
Non credo che chi viva fuori dagli Stati Uniti riesca a comprendere bene che sono riusciti a vendere bene quest’immagine di grandi culture differenti unite in modo omogeneo, quando la realtà dei fatti non potrebbe essere più lontana da quest’immaginazione. C’è l’America nera, quella latina, quella ebrea, quella asiatica e quella bianca: il paese è grande abbastanza perché ognuno abbia le proprie comunità, il proprio peso demografico etc. Ma tutte queste realtà non sono trattate allo stesso modo, non hanno gli stessi benefici o lo stesso accesso alle risorse, le stesse opportunità, è un fatto storico.
Spostando questo concetto nel mondo della musica pensi che ci sia una differenza di trattamento fra i musicisti neri e della black music in genere e tutti gli altri?
Questo è un argomento interessante. Come musicista proveniente dagli Stati Uniti ti dico che tutta la musica è “musica black”, se parliamo di jazz, blues, rock, disco, funk, soul, hip-hop: quale genere di musica popolare in America non è stato inventato dagli afroamericani? La musica black americana È la musica americana. È una cosa che mi affascina che in Europa e in Italia ogni volta che sono venuto ho sempre sentito usare questo termine: “black music”, come se esistesse qualcos’altro. Dall’Europa proviene la musica classica, ma se parliamo di musica pop, nel senso di popolare, anche generi recenti percepiti come “europei” come la Techno, o la Dubstep, provengono dall’America nera, addirittura dai Caraibi.
Non c’è ragione di chiamarla black music, è solo musica, dal momento che la musica popolare l’abbiamo praticamente inventata tutta noi, essendoci stato concesso all’epoca di contribuire solo in questo modo [ndr. ride]. Ad esempio fammi fare una domanda: in Italia la chiamate black music, addirittura si organizzano serate “black”. Ma quando artisti bianchi fanno black music, voi come li considerate? Mettiamo ad esempio che esca il nuovo album di Adele: viene considerata black music? Perché quello è semplicemente R&B, ma non lo chiamate black music. È affascinante da parte mia, anche se lei è una ragazza bianca che viene dall’Essex, quella è black music, eppure voi non vi ci riferite in questi termini. Questa è la cosa strana per me, che ho notato spesso quando sono venuto in Italia: come mai lei non è considerata black music, solo perché non è nera? In un certo senso è una cosa inconsapevolmente razzista, senza volerlo essere. La prima volta che sono venuto da voi ero quasi offeso, ma ho subito realizzato che non c’è nessuna negatività dietro, è solo un fraintendimento.
Al di là dell’Italia è un qualcosa che mi affascina della società in generale, il modo in cui Amy Winehouse, Adele, o Iggy Azalea non vengano considerate artiste di black music.
La cosa bella sarebbe se un giorno il mondo realizzasse che tutta la musica popolare è black music, così gli artisti di colore non sarebbero emarginati e non sarebbero messi in categorie, saremmo accettati come individui che contribuiscono alla società, invece di esserne separati.
Questa è la cosa più importante di tutte per me: se gli artisti di musica nera venissero chiamati semplicemente artisti, quello sarebbe vero progresso.
Sabato suonerai a Roma. Non è la tua prima volta nella città eterna, vero? C’è qualche artista italiano che ti piace, che conosci?
Sabato sarà la mia terza volta a Roma. Non conosco musicisti italiani, mi piacerebbe però, sono sicuro che ci sono cose che vale la pena di ascoltare.
Non vedo l’ora di suonare Sabato, ci si vede lì!