La prima volta che ho ascoltato “Room 25” è stata domenica mattina che non erano ancora le nove, avevo le mani calde, la testa vuota e gli orecchini ancora addosso dalla sera prima. Dopo le prime note ho dimenticato tutto questo, ho smesso di accorgermi delle cose che avevo attorno, come si fa di solito quando un amico ti apre il cuore davanti e non puoi (e non vuoi) fare altro che ascoltare.
Noname, nome d’arte di Fatimah Warner, è una cantante, rapper ma soprattutto un concentrato di poesia che viene da Chicago ma che ora vive a Los Angeles, nella Room 25. Il trasferimento da una città all’altra (e ogni altro cambiamento che ha vissuto negli ultimi due anni) risuona nel disco fortissimo, come se fosse anche lui uno strumento musicale. Magari un synth malinconico, o una doppia voce. Fatimah ora ha 26 anni e – a differenza di quasi tutte le altre persone della sua età – una visione ben definita e complessa sull’accettazione dell’età adulta, sul divenire, sul cambiamento. Così definita e complessa da trasformarla in un album nu-soul. Tutto è reale e violento, ma allo stesso tempo gentile ed elegante. Come il ventaglio di pizzo di quella signora, che si muove piano ma riesce a rinfrescare muovendo l’aria anche i suoi vicini di posto.
In “Room 25”, a differenza di “Telefone”, Noname non vuole più raccontare una storia, ma piuttosto invitarci a conversare con lei. Il suo tono è intimo, come se ci stesse confidando un segreto. E’ un disco personale, provocatorio, politico, a tratti ottimista, in un modo in cui “Telefone” non riusciva ancora ad essere, nonostante la stessa densità lirica. Assorbe silenziosamente il mondo esterno (la shit-list americana di Noname che comprende: obesità, chirurgia plastica, il grilletto facile delle forze dell’ordine, ipocrisia generale) e ne parla con una chiarezza mentale che forse riusciamo a trovare soltanto in Giorgio Gaber e Kendrick Lamar. Le vicende personali e il mondo esterno hanno lo stesso peso, e si scambiano di posto nei testi dei brani come due ballerini di valzer in una balera estiva della riviera romagnola. Dovendo fare un confronto con il disco precedente, è come se dai frammenti dello specchio che aveva rotto in “Telefone” ora potesse finalmente rivedere il suo riflesso, intero, tra i pezzi sul pavimento.
La maggior parte dell’album è prodotta da Phoelix (basso, batteria, chitarra, cori) ovviamente anche stavolta in modo indipendente e senza etichetta. Tra i featuring troviamo tutta la gang di Chicago: Adam Ness, Ravyn Lenae, Saba, Smino, Benjamin Earl Turner, Yaw. Se vi state chiedendo “ma chi diavolo è quel batterista che mi sta mandandofuori di testa?” la risposta è Luke Sangerman, nuovo diciottenne dei miei sogni. In pratica si sente sì LA ma soprattutto il desiderio di non abbandonare del tutto il posto da cui proviene. Gli arrangiamenti sono grandiosi, il colore che si crea è naturale e spontaneo. Se “Telefone” era un disco da sfogliare con due dita, “Room 25” è da sottolineare con gli evidenziatori, da tenere sempre in borsa fino a rovinarne le pagine già piegate negli angoli con delle orecchie, per non dimenticare niente.
Inizia e (SPOILER) finisce con un manuale di istruzioni: nel primo brano, Self, quelle per ascoltare il disco (“Maybe this the album you listen to in your car/ When you driving home late at night / Really questioning every god, religion, Kanye, bitches”), nell’ultimo, No Name, quelle per capire Fatimah e la scelta del suo nome d’arte, mentre le dita scivolano leggere sulla tastiera del pianoforte. Parla per trenta minuti e poi dice: ora in questi ultimi quattro vi spiego come funziono io.
Il secondo brano, Blaxpoitation, ci conquista subito perché sembra la colonna sonora di un film americano degli anni 70, ed è proprio così. Blaxpoitation è la fusione delle due parole inglesi black e exploitation, un genere cinematografico a basso costo che ha come pubblico di riferimento gli afroamericani. I film avevano principalmente attori afroamericani, erano diretti da registi afroamericani, e furono i primi ad avere colonne sonore di musica soul o funk. I samples del brano sono presi appunto da due di questi: Dolemite, e The Spook Who Sat By the Door. Parla degli stereotipi e dell’ansia che causano alle persone che ne sono vittime.
Quasi all’inizio dell’album troviamo una delle punchline assolute del 2018:
“My pussy teachin ninth-grade English
My pussy wrote a thesis on colonialism
In conversation with a marginal system in love with Jesus”
La meraviglia di parlare di figa senza dover sembrare per forza Iggy Azalea.
Nell’album ho sentito la parola “pussy” almeno tante quante la parola “empty”, la riprova che attraverso le parole il mondo esterno si mescola con quello intimo un’infinità di volte. Non si può fotografare il vento, solo le cose che ne sono mosse. Vale lo stesso per i sentimenti, e per le persone come Noname che hanno bisogno di quello che c’è fuori per accorgersi di quello che c’è dentro.
Parliamo ora un attimo di Don’t Forget About Me: è impossibile ascoltare questo brano e fare finta di niente. Dopo tre minuti e mezzo tutto inevitabilmente si riduce ad un intenso e profondissimo sospiro. Di Regal, la traccia successiva, invece nemmeno ci accorgiamo, perché con la testa siamo ancora lì, immobili
“All I am is everything and nothing at all
All I am is shoulder for your heart to lean on
All I am is love, all I am is love”
Regal è una canzone involontariamente speciale, perché sarà quella che quando poi ci ricapiterà di ascoltare i brani in ordine casuale ci sorprenderà sempre, perché ci sembrerà di non averla mai sentita davvero.
Montego Bae è un gioco di parole, è una spiaggia della Jamaica (bay) ma è anche una dichiarazione per il nuovo amore (bae) che Noname ha trovato. Ace invece è la seconda collaborazione tra Saba, Smino e Noname, altrimenti conosciuti come “The Goat Trio.” Una benedizione.
Canzoni preferite: Window, Ace, With You
Rima preferita: Provolone / IPhone
Momento preferito: il modo in cui dice forever with you per la prima volta in With You
Nella copertina (disegnata da Bryant Giles) c’è tutto quello che abbiamo ascoltato in finora: il trasloco, le paure, le scadenze, le persone aggrappate alle altre, una casa che brucia, un uovo che si schiude, un bicchiere che si rovescia, una barca che affonda e al centro lei, adulta rispetto a come l’avevamo lasciata nel disegno della copertina di “Telefone” ma comunque ancora senza colori, come se fosse cresciuta ma non fosse ancora completa.
Noname non ha paura delle parole. Canta in modo gentile (a volte quasi dolce) cose che rompono il cuore in mille pezzi. Abbiamo bisogno di parole, abbiamo bisogno di un “Room 25” ogni tanto per ritrovarci interi e vivi.
Nell’album c’è una pace particolare. La stessa pace che si sente guardando la schiuma bianca formarsi nel mare dietro il traghetto, in piedi, tra il rumore assordante della nave e le persone che fumano da sole nel vento. La pace reale e vera di quando tutti nel caos cercano di calmarsi, e ci riescono.
E nonostante ne abbiamo analizzato ogni parte,
ancora proviamo stupore.