È uscito da pochissimo Il cammino della cumbia, il nuovo romanzo a fumetti di Davide Toffolo per Oblomov – La nave di Teseo, a 5 anni da Graphic novel is dead e sulla scia dei lavori di autofiction realizzati in passato dal fumettista friulano nonché frontman dei Tre Allegri Ragazzi Morti.
Questa volta, la musa di Toffolo è la cumbia, genere musicale amato e sviscerato in un viaggio lungo 8500 km da Buenos Aires a Cartagena. Un cammino compiuto tra gennaio e febbraio di quest’anno dall’artista pordenonese fondatore dell’Istituto Italiano di Cumbia e che da poco è diventato un bellissimo racconto a colori capace di far appassionare a una cultura musicale e di approfondirne correnti, personaggi e aneddoti, senza nozionismo ma con lo stile peculiare che da sempre contraddistingue il fumettista.
Abbiamo quindi intervistato Davide, come sempre illuminante.
La lettura de Il cammino della cumbia mi ha permesso di fare un vero e proprio approfondimento con la storia della cumbia. Il modo in cui hai raccontato incontri e peripezie è davvero stimolante: fa proprio voglia di fare subito un biglietto per il Sudamerica.
Quand’è stata la prima volta che ci sei stato?
Grazie! Frequento il Sudamerica dal 2002: il mio primo incontro con la cumbia è avvenuto proprio quell’anno, a Buenos Aires.
Un viaggio così esteso e con così tanta motivazione, però, non l’avevo mai fatto prima.
Come ti sei preparato a questo viaggio di 8500 km?
La preparazione ha riguardato maggiormente il lato emotivo che l’aspetto organizzativo… pensa che mi ero semplicemente informato se fosse possibile prenotare aerei con arrivo a Buenos Aires e ritorno da Bogotà e mi sono ritrovato con i biglietti fatti in un batter d’occhio!
Ho disegnato semplicemente una mappa con gli artisti che desideravo incontrare e ci siamo avviati, senza troppa organizzazione. Siamo partiti leggerissimi e siamo ritornati pieni di cose, nonostante disavventure come un treno fermi in mezzo al nulla per 30 ore tra Villazon e Uyuni!
King Coya è l’artista che fa da trait d’union per tutto il viaggio, a mo’ di totem mitologico. Per te, è l’artista che ha spostato oltre un orizzonte musicale.
Per me è stato il capostipite di un certo modo di unire hip-hop e elettronica alla musica folklorica, nonché il primo artista di cui mi sono innamorato. Sull’idea di King Coya ho costruito la possibilità di questo racconto e tramite la sua figura ho cercato di rendere il confronto che ho avuto con la musica andina.
Nel passaggio dell’incontro con il lama (che impersonifica King Coya, ndr), lui dice “per suonare questa musica non serve saperla, ma bisogna diventare una parte della natura”, estrinsecando così un elemento portante della loro filosofia e anche alla base del culto di Pachamama: l’umano che cerca di entrare nella natura.
Quanto c’entra quindi l’elemento sciamanico e psichedelico in questo fumetto?
Questo fumetto è un documentario psichedelico, proprio perché contiene quegli elementi non-reali che hanno arricchito il nostro incontro con un’altra cultura, partito semplicemente a livello musicale per poi evolversi in modo più profondo.
Qual è per te l’originalità de Il cammino della cumbia?
Secondo me questo libro ha il merito di mostrare che non esiste una vera e propria coscienza della storia della cumbia presso i popoli che l’hanno creata, o almeno non così acuta come la immaginiamo.
Ogni Paese vive la propria dimensione musicale legata alla cumbia, ma pochissimi ne hanno una visione più onnicomprensiva. Solo King Coya e gli artisti della nuova cumbia a Bogotà come Frente Cumbiero e Meridian Brothers fanno eccezione.
Nel libro, il tour sudamericano dei Daft Punk assurge a ruolo di spartiacque per le coscienze musicali del continente.
I Daft Punk hanno rappresentato uno spartiacque musicale anche per noi europei, ma la spinta che hanno saputo dare a un’idea di musica e di performance elettronica è stata fondamentale soprattutto lì, è emerso da tutti gli incontri che abbiamo fatto.
Cosa pensi di chi dice che la cumbia digital stia snaturando il patrimonio tradizionale del genere.
Nel libro, il grafico Elliot Túpac dice in merito alla cumbia elettronica che “non si può immaginare una musica popolare elitaria”. È vero infatti che questo recupero della tradizione in forma contemporanea ora sia il prodotto di una élite. Invece la cumbia oppure la chicha in Perù negli anni ’80 e ’90 avevano una distribuzione puramente popolare.
Ci sono voci contrarie quindi, ma ciò non toglie che in questo momento specifico esiste una scena vera, che va da Buenos Aires alla casa natale della cumbia, Cartagena. La cumbia è una musica dalla natura migrante, nata e fatta di contaminazioni, proprio per questo credo a una visione contaminata del genere, pur rispettando chi è legato esclusivamente alla cumbia tradizionale, di cui comunque resto grandissimo fan.
In apertura e in chiusura del libro hai inserito il programma radiofonico di Ant De Oto. Presentalo a chi non lo conosce già.
Quando sono arrivato a Roma due anni fa, subito ho scoperto il programma di Ant su Radio Città Aperta. Oltre a essere uno speaker radiofonico, Ant è anche un agente di booking e promoter che segue in particolare la musica sudamericana. Ho pensato che lui potesse essere il collante perfetto del racconto, anche per fornire un legame specifico con l’Italia. E poi la radio da cui trasmette ha un nome che vale tutto!
Raccontami della cumbia in Italia.
Oltre all’amico Populous – sicuramente l’autore italiano più vicino alla cumbia contemporanea e che più sta avendo riscontri – c’è ovviamente l’Istituto Italiano di Cumbia, il cui nuovo volume racconta una geografia interessantissima dell’Italia di oggi, con 17 gruppi che dalla Sardegna al Friuli, passando per le grandi città, sono affascinati dal rapporto con la cumbia. È una situazione nuova e speciale per cui mi sono speso tanto in prima persona e di cui sono felice di vedere i frutti.
Stai imparando lo spagnolo?
Il mio spagnolo è sempre drammatico, per fortuna i miei compagni di viaggio Paulonia Zumo e Nahuel Martinez lo parlano perfettamente e mi hanno permesso di godere a pieno degli incontri. Presentarci poi come Istituto Italiano di Cumbia ci ha aperto tutte le porte e soprattutto ci ha dato la capacità di avere una ricognizione costante del lavoro che stavamo facendo. Penso ad esempio che l’intervista ravvicinata con Los Mirlos e Los Shapis racconti davvero bene due momenti della storia della cumbia in Perù coevi ma contrapposti.
Probabilmente il mio disco preferito dei Tre Allegri Ragazzi Morti è Primitivi del Futuro, anche e soprattutto per le sue influenze reggae. Perché non hai pensato a suo tempo di realizzare per il reggae qualcosa di simile a ciò che stai facendo oggi con la cumbia?
Il mio rapporto con il reggae è stato ed è profondo, semmai a differenza dell’amore per la cumbia non l’ho mai esplicitato se non nella forte commistione di quel disco e della sua versione dub.
Per me la musica giamaicana è stata un importante territorio d’indagine, non a caso sono stato a Kingston con Paolo Baldini (produttore di Primitivi del Futuro e concittadino di Davide Toffolo, ndr) a lavorare per un suo documentario incredibile, DubFiles at Song Embassy, Papine, Kingston 6: una ricognizione sul reggae in Giamaica oggi, accompagnato da un album live in cui una ventina di artisti di Kingston si sono alternati alla voce sulle produzioni di Paolo, realizzate in Friuli.
Che ne pensi del reggaeton?
È un po’ il nemico, ma come dice Mala Fama ciò che conta è che ci siano autori che continuino a scriverne. Il problema infatti non è la forma del reggaeton – che poi di base è una ritmica, il dem bow – ma quali artisti la plasmano. Ci sono canzoni trash o brutte anche nella cumbia, d’altronde. Tutto sta a declinarlo bene, ma questo forse vale per qualsiasi genere musicale.