CAMERA DA GRANDI
Rod e Miguel indossano parrucche gigantesche. Le chiome coprono gli occhi, comunque socchiusi da qualche tiro d’erba. I due battono i piedi a ritmo, simmetrici senza saperlo; stanno a peso morto sul tappeto, come fosse vietato pensare al cielo. Tre tazze da tè a macchiare il comodino bianco, o c’è grande pigrizia o qualcuno se n’è appena andato.
Parlano della sera prima:
“Mi ha detto che ha un ragazzo. O una ragazza, insomma mi ha fatto capire che quelle gambe lunghe e lisce… Non si toccano” inizia Rod, con uno scudo di autoironia.
“Come le ginocchia di un giocatore di soccer! Il ginocchio varo.” replica Miguel, a metà tra il secchione della classe e un commentatore sportivo.
Rod lo colpisce con un cuscino bordeaux. “Chi sei, il dottor Zivago?”
“Non sono un medico, ma insomma ho frequentato-”
L’amico non lo lascia finire: “Intendo che nessuno parla più di te. Non interessi a nessuno, il tuo personaggio è finito dieci anni fa. Piaci solo ai vecchi!”
“Tu sei come la guerra in Vietnam.”
“Imprevedibile?”
“Finito” grida Miguel, ricambiando la cuscinata con ancora più violenza e affetto.
“Comunque credo tornerà. Tommy è così, lo dice anche Aaron, Tommy ha bisogno di complicazioni. E io sono la complicazione ideale, in qualsiasi senso possibile.”
“Doppia A diceva anche che sarebbe arrivato alle 10.”
Miguel indica l’orologio rosso, cerchi concentrici appesi troppo in alto per fidarsi. Segna le 10.31, lo usano come test di ebbrezza: chi non legge l’ora fa meglio ad arrendersi.
Rod si illumina, quasi agitato: “Ho letto che l’anno scorso miliardi di lettere non sono mai arrivate perché un negozio ha piazzato un cestino troppo simile a una cassetta della posta. Miliardi no, migliaia sì.”
“Secondo me è semplice: nessuno ti scrive. Dov’è successa questa cazzata?”
“In Vermont, credo.”
“E in quale Stato siamo noi, Rod?”
“Fottiti.”
D’improvviso entra un uomo bagnato, senza parrucca e senza capelli in assoluto.
“Scusate il ritardo. Rod, ho incrociato Tommy. Dice che stasera va al karaoke da solo. Vedi tu.”
Rod gli lancia il cuscino, Aaron lo prende al volo e si siede sul tappeto beige, ancora fradicio.
Rod riflette, cupo per cinque secondi: “La pazienza è un gioco straordinario.”
“Un gioco da eroi”, annuisce Miguel.
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“Bless the sexy man” – Sexy Man, Connan Mockasin
Che sia messo agli atti: il wha-wha è l’effetto più conturbante e sensuale della musica pop. Provate a pensare a Let’s get it on di Marvin Gaye senza wha-wha. Quella chitarra è un flirt in pieno sole, un gioco di strusciamenti languidi, uno spioncino che dà sulle camere dei motel. Immagini che tornano, a distanza di decenni, nella musica di Connan Mockasin, geniale compositore neozelandese nonché finissimo cesellatore di assoli sgocciolanti e vietati ai minori di 18 anni.
Musicista incatalogabile e spiritato in odor di Ariel Pink, nel suo ultimo album Jassbusters riesce a suonare come se Marc Knopfler, Serge Gainsbourg e Shintaro Sakamoto cercassero di rifare I’m not in love dei 10cc: un soft-rock colante, appiccicosissimo, ciclico, che farebbe oscillare (proprio come un wha-wha) l’eterosessualità di tutti noi. Connan Mockasin è una specie di folletto biondo che potreste beccare a caso in un karaoke giapponese: già me lo vedo che si lancia in improponibili falsetti e usa un bicchiere di vino come slide per la chitarra, tutto intento a tessere musica cheesy e enigmatica e a farvi cadere nella sua ragnatela.
A far compagnia al buon Mockasin, la musica burrosa di infinite bisous – non a caso, chitarrista e collaboratore di Connan – che solo un anno fa ha pubblicato w/love, un album in ralenti e imbevuto in una crema di marshmallow. Ne siamo sicuri, è stato colonna sonora di numerose danze orizzontali in letti matrimoniali rubati ai legittimi proprietari.