Venerus è forse uno degli artisti più eclettici e curiosi che vi capiterà di incontrare al momento. Sappiamo poco di lui: nato come Andrea, classe 1992, originario di San Siro, si trasferisce a Londra quando ha solo 18 anni, esperienza che lo porta a contatto con la scena musicale locale e a sperimentare con progetti personali.
Tornato in Italia, registra il suo primo album a Roma, città di cui si innamorare e che diventa la sua nuova casa – dove vive attualmente. Ma è 2018 il suo anno fortunato: dopo i singoli come “Non Ti Conosco” e “Dreamliner”, che accendono i riflettori della visibilità su di lui, il 16 novembre scorso arriva la pubblicazione di “A Che Punto È La Notte” per Asian Fake.
Cinque tracce che racchiudono tutto il mondo di Venerus, come una finestra sulla sua cameretta, in cui potete ascoltare note di jazz, soul e sonorità elettroniche a cui vi abbandonerete dolcemente.
Per essere sicuri che non vi sfugga niente di “A Che Punto È La Notte”, abbiamo chiesto a Venerus in persona di raccontarcelo, traccia dopo traccia, e dirci qual è, secondo lui, il momento migliore per ascoltarle.
IOXTE:
È un pezzo che mi immagino di suonare a un festival in primavera, al tramonto in una foresta, con un pubblico libertino “alla Woodstock” e un bell’impianto da cui tutti possano sentire le lente onde di energia attraversare il loro corpo.
È un brano che associo al colore caldo arancione del sole, e a tratti mi ricorda le belle sensazioni fisiche provate nella non sobrietà. Inoltre, è una canzone che funziona molto anche nell’intimità con un’altra persona, senza nessun altro in casa, con una finestra aperta che si affaccia sula città, o chissà quale altra ambientazione.
SENZASONNO:
In metro, di notte forse, ha dei toni scuri evocativi, e tra l’altro anche una registrazione del treno della metro che arriva in banchina a Lotto. Da sentire con le cuffie e il cappuccio della felpa tirato su.
NOTE AUDIO:
Ritorniamo al festival dove eravamo all’inizio, mi piaceva come situazione. Ecco, però questa volta è mattina, e la canzone la si sente ancora sdraiati scomposti nella tenda, con gli spifferi che ti ricordano che fuori c’è il mondo.
È una canzone che sicuramente mi rimanda a quel tipo di sensazioni, specialmente la chitarra dopo il ritornello che nella mia testa è un po’ hendrixiana nel gusto. Inoltre, è come un mio non-pianificato manifesto a difesa del mio essere con la testa tra le nuvole quasi costantemente, quindi me la immagino idealmente in un luogo/situazione dove non bisogna rendere conto di niente a nessuno.
SINDROME:
Dall’esperienza che ne ho fatto suonandola recentemente, posso dire che sicuramente questa canzone prende maggiormente vita in un club.
Se dovessi immaginarmene uno in particolare direi il Village Underground a Londra – cercate foto per capire.
È una canzone che si accende quando tante persone tutte insieme la possono ballare, e sono molto contento di cominciare ad avere del materiale di questo tipo. Sicuramente lavorerò ad altre tracce “da club”.
ALTROVE:
Traccia da “after”, da ascoltare sul divano con più persone, possibilmente malamente accatastate l’una sull’altra con una canna che gira – possibilmente più.
È lenta, ma allo stesso tempo incalzante, ti porta in giro per le strade senza doversi muovere minimamente da dove ci si trova. Si presta come altra traccia in intimità, specialmente quando entra il riff di chitarra sul finale.
Articolo di Cecilia Esposito.
Foto di Simone Baviati.