FUTURO DEL CLASSICO
E quindi come suona Titanic Rising?
Suona come un mondo dove tutto è espanso, rigoglioso, abbondante e ornato. Si potrebbe discutere per ore di come questa o quella canzone richiamino questo o quest’altro brano del passato. Potremmo raccontare quanto volete dell’attacco di A Lot’s Gonna Change che pare una Warszawa di Bowie laccata di spray, delle ballate per piano dei Beatles e dell’effervescente pop da camera dei Beach Boys, delle atmosfere disneyane del brano finale, di quella chitarra liquidissima alla George Harrison che, come una madeleine proustiana, riporta alla mente un mondo di memorie perdute che hanno la consistenza di un acquerello.
Con Weyes Blood parlare di influenze (varissime, per altro: da Judy Garland alla musica rinascimentale arrivando a Bach e al jazz) appare riduttivo perché la sua musica eccede ogni tipo di categorizzazione: Titanic Rising fatica, infatti, a essere incasellato in un unico genere. Come potremmo unire, infatti, le viole e le slide guitar, i synth pulsante e eterei e gli organi e ancora il minimalismo caotico di Arthur Russel e le orchestrazioni ridondanti degli anni ‘60? Semplice, non si può. Né possiamo affibbiare la facile etichetta di “musica retrò”.
Come osserva Jonathan Rado, produttore dal suono smaccatamente vintage: I’m not opposed to something sounding like the 60s but I think it has to be subverted in some way to be truly interesting. Questo è quello che accade in Titanic Rising: le influenze di ogni traccia sono talmente esplicite (per la serie: non c’è niente da nascondere qui) da risultare discrete e quindi trascurabili, come se facessero parte, nel modo più naturale possibile, di un retaggio culturale comune, di una sorta di lessico musicale che troviamo già presente in noi al momento della nascita. Una premusica, direbbe Giulia Cavaliere.
Se ogni brano in Titanic Rising può essere scomposto e analizzato suono per suono come in un gioco di referenze infinito, la costruzione melodica risulta piena di inventiva, imprevedibile, innovativa. È il timbro che Natalie imprime a mo’ di francobollo su ogni suono attraverso l’immaginazione: “Volevo trovare un modo per usare lo spirito eterno dell’età d’oro della musica pop – però con lo stile del 2019: parlare di grandi questioni con un registro intimo e al contempo affrontare il senso di piccolezza che la maggior parte di noi sente una volta percepita la portata dei problemi affrontati […] Volevo creare qualcosa in cui la mia generazione potesse riconoscersi”. Non si rivangano le ceneri del passato, anzi, si cerca di scrollarsele dalle spalle (but hey/a lot’s gonna change in your lifetime/try to leave it all behind in your lifetime, canta in A Lot’s Gonna Change).
In un’intervista Weyes Blood si è definita “nostalgic futurist”, un’espressione che incarna l’amore per l’antico e le spinte futuristiche: apparentemente incompatibili, nella sua personalità confluiscono come una giustapposizione ammantata di realismo magico. Una favola che verrà scritta tra mille anni e che racconta di una viaggiatrice del tempo vestita da cortigiana.
Come ha detto un amico: she’s on a mission. Chissà dove ci porterà la prossima volta.
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*graphic design a cura di Stefania Sperandio