La sua musica è entrata nella mia quotidianità come la pastasciutta, la bicicletta, il bucato, tirare una X sul calendario alla fine di una giornata: a volte per riuscire a ricordarmi una cosa la metto in relazione alla data di uscita di un suo disco. «Il primo colloquio per un lavoro vero quando è stato? Era appena uscito Tutti dicono guardiamo avanti, ho scartato il digipack del cd aspettando chiamassero il mio nome.» «Quel viaggio verso Castiglione delle Stiviere quando ci siamo fermati a guardare il centro commerciale che sembra un castello medievale? In macchina abbiamo cantato fortissimo Senza Luna: 2015, quindi».
Sulle sue canzoni ho costruito amicizie importanti, e fatto tanti chilometri per sentirlo suonare, visto posti che non avrei visto altrimenti, portato i suoi LP da un appartamento all’altro anche quando non avevo un giradischi, come fossero amuleti di buon auspicio. Al compimento dei miei ventidue anni mi hanno regalato un iPod, che uso tutt’ora: alla lettera C il primo nome è sempre stato il suo. Alla vita, alle persone, al mondo, a me stesso chiedo ora delle cose diverse rispetto a dieci anni fa: anche alla musica, grazie a dio. Ma alla fine è tutta una questione di alternanze fra costanti e variabili: Caso è la mia costante, quella che aspetti e che non delude mai. Nei cortili all’aperto, vicino ai binari della ferrovia, sui palchi estivi dei festival di periferia, nei locali giusti e in quelli sbagliati, nei centri sociali, nei circoli Arci e nelle piazze di paese, davanti a un pubblico composto da completi sconosciuti o fatto tutto di amici, in biblioteche pubbliche e case private: Andrea Casali da quando si fa chiamare Caso e imbraccia la chitarra ha suonato un po’ ovunque.
Spesso quando è sul palco capita di vederlo sorridere mentre canta, o farsi serissimo, stare immobile davanti al microfono o fare le giravolte seguendo i giri di chitarra: e così è la sua musica, un modo per dire cose importanti senza rinunciare a ridere di se stessi, un moto riflessivo ma non ombelicale, la batteria che corre a mille all’ora quando i denti si fanno stretti e i fraseggi che diventano minimi quando le parole vanno scandite per bene.
Si è liberato in fretta delle pietre di paragone: l’equivoco vascobrondiano dei primi tempi (Le luci della centrale elettrica e Caso sono due mondi che non si toccano mai), poi quella del cantautore sbilenco alla Paul Baribeau, o del Billy Bragg della bergamasca: si è costruito una cifra fatta di elementi e figure ricorrenti, uno sguardo dritto sulla cose, una voce sempre in primo piano, nessuna strizzata d’occhio alle mode o colpi di gomito all’ascoltatore. Mai statico ma sempre riconoscibile, il suo mondo musicale e il suo immaginario semplicemente si sono arricchiti nel tempo. Ad ogni buca, la sua nuova prova discografica sul lungo esce quasi in sordina, di soppiatto, e come ogni cosa che parte piano diventa sempre più grande di ascolto in ascolto. Anzi, per essere più chiari: già dopo pochi secondi della prima traccia non se ne può più fare a meno.
Ne abbiamo parlato via mail: non ci vediamo da un po’, e questa sarebbe dovuta essere una chiacchierata da fare passeggiando insieme per Bergamo, la città dove vive Andrea e che ha un ruolo importante nelle sue canzoni, un posto che ho amato senza mai dimostrarlo, e di cui a volte sento una nostalgia acuta.
Quindi abbiamo deciso di mettere comunque le indicazioni stradali specifiche delle strade in cui avremmo camminato a passo svelto, nel caso vi venisse voglia di fare una gita nel fine settimana. Via.