(Borgo Palazzo, piazza del cinema parrocchiale: andare sempre dritto, percorrere tutta via Borgo Palazzo fino a che diventa via Pignolo. Arrivare alla biforcazione con via Palabrocco e svoltare a destra in via San Tomaso, poi sempre dritto fino all’incrocio con via Cesare Battisti)
Dal 2009 quando hai esordito con Dieci tracce, sei sempre stato regolare: un disco ogni due anni. Ad ogni buca esce invece a una distanza leggermente sfalsata rispetto al tuo precedente LP Cervino: tre anni al posto di due, e già dalla durata della scaletta si percepisce un’anomalia: otto canzoni per ventotto minuti. È come se questa volta tu avessi lavorato per sottrazione: uno strumento in meno, meno pezzi, una certa essenzialità negli arrangiamenti. La strada è quella di sempre, la direzione anche, ma ti si sei spostato dalla linea che sta al centro a una posizione più defilata, laterale. Ci racconti come siamo arrivati fino a qui? Lo avevi pensato da subito così o è il risultato finale di più fasi di lavorazione?
In questo momento non credo nei dischi da dieci canzoni o più; da ascoltatore faccio fatica ad arrivare in fondo. Forse perché non ho più tempo per fare solo quello, forse perché sono cambiati i supporti, non lo so, ma mi sono convinto che si possa dire tutto con pochi pezzi scritti meglio. Dopo aver chiuso Cervino sono riuscito a guardarlo con distacco e l’ho trovato un disco fatto di buone canzoni, ben suonate, ma un pizzico lungo; mi scocciava l’idea che qualcuno potesse abbandonarlo senza sentire FM.
Ok chiedere all’ascoltatore un piccolo sforzo, ma arrivare in fondo a un disco non deve essere un’impresa, così ho deciso da subito che avrei fatto un disco “corto” e che avrei messo il pezzo migliore del disco nel lato A. Inoltre per rimettere al centro i testi ho scelto assieme a Riccardo Zamboni di togliere la sua chitarra e sfruttare la sua esperienza da produttore. Sono contentissimo di come abbiamo lavorato e di averlo fatto al Monzoa studio di Gregorio (basso nel disco e nei live), studio che è diventato anche la nostra sala prove.
Il disco parte con Ogni volta l’inverno, un pezzo che parla di come non riusciamo ad essere mai pronti davanti a quello che succede, anche quando sappiamo accadrà di sicuro. Come nelle fotografie di Guido Guidi, che spesso hanno un punto di fuga centrale che cattura l’occhio ma hanno il vero nucleo di interesse nelle cose che succedono a lato, se guardi in controluce il pezzo si possono scorgere una serie di riferimenti alla scrittura delle canzoni, ma anche della scrittura in generale: ci ho visto giusto? Prima di lasciarti rispondere, ti anticipo un’altra domanda: chi è la prima persona a cui fai sentire le tue cose nuove?
A casa mia funziona spesso così: Alessandra torna dal lavoro, entra, appoggia la giacca e io le dico: “senti qui”. Ha un gusto molto diverso dal mio, è importantissimo il suo parere. Ha un sacco di pazienza e credo lei dia il meglio proprio in quei momenti da “ogni volta l’inverno”, quando mi rimetto a scrivere dopo lunghi periodi in cui ho dovuto fare altro.
Quando sono impegnato con le date come in questo periodo, non riesco a mettermi sulla chitarra: con il lavoro a tempo pieno, tutti gli impegni e adesso il bimbo, non ne ho il tempo; a volte passo molti mesi senza scrivere una canzone e quando mi ci rimetto sono fuori allenamento. Vivo una specie di limbo che dura anche mesi in cui lotto un po’ con me stesso per fare rigirare gli ingranaggi dello scrivere e a volte anche per mantenere alto l’entusiasmo. Sono i periodi in cui tutti i pensieri, appunti e umori si rimescolano velocemente e succede davvero che poi io non ritrovi la macchina al parcheggio, o prenda l’autostrada senza biglietto.
Quello che dici mi ha fatto venire in mente una cosa che ho letto recentemente in un’intervista a David Bazan/Pedro The Lion, che a proposito di una conversazione che ha avuto con John Darnielle dei Mountain Goats dice: «È un insieme di competenze. Come qualsiasi cosa, fissi gli aspetti pratici e quelli formali, e li metti assieme. Lui (John Darnielle) ha dovuto, in un certo senso, farsi i muscoli; e poi i muscoli della scrittura e le sue abilità era come se fossero lì in attesa di quel particolare momento nella sua vita». Sempre in quell’intervista a un certo punto Bazan dice: «È necessario che io scriva di un particolare episodio o di una serie di episodi della mia vita quando posso essere il migliore cantautore possibile, ed è un bel momento, perché così ho le capacità di farlo al massimo delle mie possibilità, e creare, alla fine, un bel disco. Quindi in un certo senso serve un po’ di magia. Ma in realtà non è nemmeno un processo così magico, perché è quello che ci porta a conoscere noi stessi, leggendo libri utili alla nostra crescita ad esempio, trovandoci sempre di fronte a cose che ci possono ispirare.» Quanto di quello che leggi/guardi entra poi nelle tue canzoni? L’idea di scrivere un romanzo ce l’hai ancora? Mettiamo che hai due ore libere da tutto: film, disco o libro?
Magari due ore filate! Diciamo che ragiono a mezzore, eheh. Un paio di anni fa ho iniziato a studiare il pianoforte, quando ho un pizzico di tempo mi butto su quello; succede così raramente che suono sempre le stesse canzoni: ogni volta devo reimpararle daccapo perché le ho dimenticate. Aggiungici il fatto che sono ad un livello pre-principiante e va così che sono sei mesi che suono Jingle Bells con tre dita. Insomma mezzo step dopo il livello “sigla della Barilla”. Una volta ho scritto per scherzo sui social network che è da 38 anni che sto lavorando al mio primo romanzo. La cosa assurda è che qualcuno ci ha creduto a tal punto di invitarmi a presentarlo nel suo locale. Ogni tanto penso che potrebbe essere un’idea buona per l’incipit.