LIBERATO canta ancora. Dal vivo. E l’incredibile intensa verità di come lo fa e delle sue parole è evidente anche tra i 25000 che sono intorno a me qui al Rock In Roma.
Liberato è un progetto tortuoso e multiforme su cui tante sono state sempre le congetture e pressoché infiniti i chilometri di parole spese. Il compito di tentare di carpirne il segreto o pretendere di raccontarne l’evoluzione più che a un critico forse spetterebbe a un sociologo.
Conosco Liberato sin dai primi vagiti e ne è passata di acqua sotto i ponti da quel potente seppur timido “Nove maggio” che uscì in quell’ormai lontano febbraio di due anni fa. Sembra passata una vita. Nel mezzo un lento scorrere di novità, sempre precise, ogni passo fatto con coscienza e soprattutto calma, in una dimensione e un mood totalmente avversi all’attuale industria musicale che invece vorrebbe pezzi usa e getta. Altro punto indiscusso: difficile per gli haters trovare argomenti per sminuirlo o sfregiarlo. E per quanto mi riguarda anche il concerto di sabato è stato qualcosa che va ben oltre la semplice esperienza di un live.
L’aria che si respirava era al limite del metafisico. Perché è il progetto stesso di Liberato ad esserlo, nel senso che trascende la fisicità. Non è per niente semplice strutturare un live per decine di migliaia di persone, centrato su un solo artista senza però aver la possibilità di mostrarlo nei maxischermi o sfruttare la sua capacità espressiva fisica e visiva. Un mare di effetti erano quindi inevitabili, difficile come ovvio non annoiare (personalmente forse avrei giocato di più sulla varietà e i significati, essendo anche il progetto Liberato amante dei simboli) eppure il senso di tutto è parabolico e per questo ben costruito. Inizia in crescendo con una “Guagliò” lunghissima, mentre chi sta lì realizza che davanti a Liberato c’è una gabbia immensa che chiude l’intero palco e lo separa dal pubblico: una prigione. L’impressione è quella claustrofobica del carcere e qui si potrebbe aprire una parentesi sulle congetture che vedevano Liberato un detenuto del carcere minorile di Nisida e tutta l’intera produzione un’iniziativa per il recupero dei ragazzi carcerati.
Come ogni progetto anonimo parte integrante e costitutiva di esso è proprio la dicotomia presenza/assenza, l’essere e il non essere. Liberato non è un cantante. Liberato è tutto e niente. È la sua Napoli, fatta di controsensi e misteri. Liberato è l’amore per la storia e il ricordo, che può essere universale quanto personale. Liberato è l’annullamento del tempo e dello spazio. Nessuno sa quanti anni ha e da dove venga. Proprio come la gente, arrivata praticamente da ovunque, Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Bari e che aveva dai quindici ai quarant’anni. Non esistono definizioni per un simile progetto, né precedenti. Thomas Pynchon, Elena Ferrante nella letteratura, gli universali Daft Punk o la nostra pazzeska Myss Keta nella musica, Banksy nell’arte, si potrebbe continuare per ore, mai però nessuno armato dell’anonimato in campo artistico che abbia prima d’ora avuto un legame così forte con la propria terra, a tal punto da diventare esso stesso allegoria e simbolo di essa. Perché come già è stato scritto Liberato è Napoli stessa. E non potrebbe nemmeno esistere senza.
La gabbia a un terzo del concerto si alza e rivela la presenza di alcune figure incappucciate e con volto coperto. Al centro Liberato. Siamo vivi e anche questo istante, vissuto con questa intensità, lo dimostra. Ca pe’ caccià ‘na lacrema ce vuo’ ‘nu suspiro. E ti ritrovi a gridare forte in un dialetto che non ti appartiene, ma che è come una lingua madre sommersa dentro di te e che non pensavi di conoscere. Alla fine ci aspettano tanti chilometri nel ritorno, senza sonno. Eppure sembra già esserci tutto in questa estate appena sbocciata. Ma che ci frega adesso a noi.
Vedi Liberato e poi muori.
Testo di Natan Salvemini
Foto di Giuseppe Maffia