“The older I get, the less I fear anyone I see
And yet all the more, I feel humanity”
“Ma” è il decimo album di Devendra Banhart, terzo uscito per Nonesuch Records. E’ un album che parla con gravità e grazia di amore materno, di vita e di morte, di madre terra, della precarietà del mondo e di quella cosa che non so descrivere ma che è molto simile a “l’unica oltre l’amore” di cui parla Giovanni Truppi nel suo ultimo disco “Poesia e Civiltà”. “Ma” è malinconico e sobrio come ogni creazione di Devendra, ma con un tocco di profondità, sensibilità e tenerezza in più. E’ uscito il 13 settembre con la luna piena in pesci e una sensazione di libertà che freme tra le dita e fa vibrare la spina dorsale. L’essere vulnerabili e fragili ci rende liberi.
La sua voce – particolarmente in quest’album – non ci spoglia, ci sveste. Scioglie un giro dopo l’altro le bende che coprono le nostre ferite, lasciando la pelle nuda e nuova a contatto con l’aria fresca. Con la delicatezza di un infermiere esperto, lascia respirare le nostre piaghe non ancora del tutto rimarginate. E dopo questi 46 minuti di sbendaggio eccoci arrivati – col respiro fermo in gola – a Will You See You Tonight?, ultimo brano del disco in cui duetta con Vashti Bunyan: una benedizione, una carezza leggera, un modo per dire che anche se le cose finiscono andrà tutto bene.
Devendra in ogni disco ha bisogno di rassicurarci, e noi di essere rassicurati.
Abre Las Manos, October 12 e My Boyfriend’s in the band sono cantate in spagnolo, Carolina in portoghese e in Kantori Ongaku canta nel ritornello un verso che sembra avere un significato bellissimo e invece è la traduzione di “musica country” in giapponese. L’amore è un linguaggio universale, e ogni lingua parlata in questo disco ci sembra la nostra, senza avere la necessità di traduzioni o interpretazioni.
(a dire la verità, l’unica cosa di cui avrei davvero bisogno adesso è di sentire qualcuno cantare il mio nome allo stesso modo in cui Devendra canta Carolina)
Memorial è un brano bellissimo che parla di una perdita e dello strano miscuglio di sentimenti che si crea in chi rimane vivo, con il cuore spezzato e il corpo intorpidito. Una proposta di matrimonio ad un funerale. Le lacrime, la tremenda delicatezza con cui si toccano le persone, la perfezione e l’intensità del dolore.
E io in questi tre minuti capisco benissimo di cosa Devendra sta parlando, e sento i miei occhi spalancati a bagnomaria nei suoi.
Taking a Page è invece ispirata da Carole King, di cui troviamo addirittura una citazione del suo brano So far Away: “But you’re so far away / Doesn’t anybody stay in one place anymore / It would be so fine to see your face at my door / Doesn’t help to know you’re so far away”.
Devendra racconta che dopo la vittoria di Trump alle elezioni era scioccato ed aveva paura, e aveva bisogno di qualcosa che lo facesse riprendere e rinascere. In Carole King fortunatamente ha trovato quello che cercava. Il video è un bellissimo viaggio tra le montagne del Nepal, un sorriso a labbra socchiuse tra il vento e gli yak.
Il video di Kantori Ongaku si apre con un pony che fa pipì sul pavimento e si chiude con la modella Emily Labowe che vomita una liquido giallo sulla faccia di Banhart. Tutto il video riprende i colori blu, rosso e giallo (quelli della bandiera del Venezuela) e racconta storie bellissime sul suo paese legate tra loro da una treccia di capelli bruni. La cosa che amo di più di questo brano è quel ritornello in giapponese: Haruomi Hosono – musicista e produttore discografico giapponese – ha scritto una canzone tutta in giapponese, eccetto per il ritornello in cui dice “country music” in inglese. Kantori Ongaku è il rovescio di questa medaglia, la sua canzone complementare.
Anche se il titolo dell’album “Ma” sembra riferirsi a uno stretto concetto di maternità, ogni canzone è indirizzata a qualcuno di diverso. Una madre può essere un padre, un dio, un pianeta (ad esempio il nostro, che ritroviamo ascoltando Kantori Ongaku: “Press the button of the wold peace / and wipe everything but the moon”), la terra dove siamo nati (il Venezuela, paese che sta soffrendo moltissimo e dove Devendra ha ancora suo fratello e altri familiari).
In supporto a “Ma”, Devendra organizza 26 date del tour (di cui una a Milano) e 1$ per ogni biglietto verrà devoluto a World Central Kitchen (WCK), un’organizzazione che combatte la fame nel mondo e che si sta impegnando molto in questo momento nella crisi sulla frontiera tra Colombia e Venezuela.
I fiori sbilenchi della copertina sono un disegno di Devendra, e li ritroviamo anche riprodotti su una spilletta che desidero moltissimo e che potete regalarmi comprandola qui. Sono fiori diversi tra loro, come i generi musicali dei brani contenuti in quest’album, amalgamati perfettamente dalla sua voce moderata e gentile. Immagino quei fiori muoversi con i primi venti di settembre (quelli che fanno venire il mal di gola), ondeggiare nel buio senza spezzarsi, danzare avvinghiati tra le melodie lente e pop di Love Song. Ogni brano è un’amara storia d’amore.
Concludo con una poesia bellissima di Leticia Sala che mi fa pensare a questo disco e che vi consiglio di leggere sottovoce anche se non sapete lo spagnolo.
Pienso en el sufrimiento
como generador de sensibilidad
y en la sensibilidad
como generadora de creación,
que al final es así como
nos reconciliamos con el dolor.
Cuando creamos cualquier pieza
fruto del sufrimiento
le damos forma al dolor
galopa libre y lejos
ya no nos pertenece.
(siamo liberi e vulnerabili)