Sono trascorsi 10 giorni dall’uscita del terzo album di Michael Kiwanuka e, nonostante le numerose e importanti release degli ultimi venerdì, non riusciamo ancora a smettere di ascoltarlo.
La ragione è molto semplice ed è che il soulman londinese di origini ugandesi ha scritto uno degli album più belli dell’ultimo anno e, forse, degli ultimi dieci anni.
KIWANUKA segue l’esperimento soul-folk Home Again del 2012 e il più recente Love & Hate (2016), prodotto insieme a Danger Mouse e Inflo, che ha indirizzato quello stesso esperimento verso i territori più lontani del rock, della psichedelia e dell’opinione politica. Di quel secondo lavoro in studio, la critica aveva particolarmente apprezzato il singolo Cold Little Heart, divenuto sigla della famosa serie HBO Big Little Lies e, inevitabilmente, il brano per il quale Michael Kiwanuka era arrivato finalmente a un pubblico più ampio.
Tuttavia, se pure ci era arrivato, non era nella sua forma più compiuta.
Nel lavoro precedente il cantautore britannico si era perso nei suoi numerosi interrogativi, senza trovare una risposta positiva: la musica di Love & Hate era alimentata dai conflitti oppositivi suggeriti dal titolo, così come dalle incertezze derivanti dalla discriminazione razziale. Per cui, nonostante l’ottimo slancio creativo verso il soul malinconico degli anni ’60 e ’70, rivisitato in chiave floydiana e qualche punta impertinente di afrobeat strumentale, quel disco non aveva rivelato la vera corazza di Michael Kiwanuka, impegnato a risolvere le sue angosce e ancora poco consapevole e fiero della sua blackness.
Ora invece è lì che ci guarda con aria fiera nell’outfit regale scelto per l’artwork del nuovo disco.
You Ain’t the Problem, la traccia d’apertura di KIWANUKA, è la prima conferma che in questo album la rotta sia completamente diversa e viaggia nelle vele gonfie della propria autodeterminazione: l’artista si mostra più sicuro di sé, maggiormente consapevole del suo valore umano e artistico, pronto a risolvere tutti i conflitti lasciati aperti in Love & Hate.
Da un punto di vista musicale tutto questo si traduce in un’opera maestosa e trionfale che, mantenendo la produzione di Danger Mouse e Inflo, ci riporta nelle atmosfere del lavoro precedente ma le arricchisce, stavolta, con un potentissimo miscuglio di old soul alla Marvin Gaye e psych-rock alla Twin Peaks. Non solo, nelle 14 nuove tracce di KIWANUKA si respira un clima da colonna sonora di film poliziottesco anni ’70, nonché piacevolissime distensioni blues e jazz. Al centro di tutto, però, c’è la sua voce che emerge con forza in queste raggianti modulazioni elettriche, acustiche e digitali.
Così, Michael Kiwanuka scrive Hero per omaggiare Fred Hampton, giovane attivista delle Pantere Nere ucciso dalla polizia di Chicago il 4 dicembre 1969. La traccia diventa occasione per ricordare gli eroi che hanno cambiato il mondo: Elton John, Bob Dylan, John Lennon, David Bowie.
E ancora, mentre in Final Days si riflette sull’apocalissi nucleare, nella già citata You Ain’t the Problem, l’artista incoraggia a incorniciare la propria identità, abbandonando quel senso di inadeguatezza proprio di chi viene messo ai margini: “If you don’t belong, you’re not the problem.”
Attraverso queste tracce trapela un’auto-affermazione positiva, sincera e audace esplosa in un disco altrettanto istintivo e onesto che, ormai alla fine dell’anno, ci costringe a mettere in disordine tutte le classifiche, suonando come uno degli album migliori dell’anno. E, anzi, degli ultimi dieci anni.