“Tutta la volontà
D’un tratto se ne va
Di fronte all’ovvietà
Tutto questo è immensità”
L’8 novembre è uscito per 42records “Immensità” di Andrea Laszlo De Simone, un concept album, una suite orchestrale che ci trasporta e ci fa vivere per 25 minuti in un mondo completamente diverso da questo, pieno di luce e senza confini. Non ci sono pause tra i brani ma solo delicati interludi con dei nomi importanti: il sogno, la realtà, lo spazio e il tempo. L’armonia che si crea tra i quattro brani principali – Immensità, La Nostra Fine, Mistero e Conchiglie – crea un’evocazione indescrivibile, quasi come fossimo davvero troppo piccoli per raccontare l’immensità.
Per presentare la suite Andrea Laszlo De Simone è stato accompagnato oltre che dalla sua band storica anche da Giulia Pecora al violino, Clarissa Marino al violoncello e Stefano Piri Colosimo alla tromba e al flicorno. Nove elementi che hanno risvegliato l’anima dei fan di sole quattro città: Roma, Torino, Padova e Milano.
Penso alle bozze che Ernesto Rossi scriveva dal carcere alla fidanzata: “Non vorrei scrivertele, queste cose, ma dirtele passandoti le mani tra i capelli e accarezzandoti gli occhi come facevo quando avevo da dirti qualcosa che ti faceva male”. Andrea Laszlo De Simone non è in carcere e noi non siamo la sua fidanzata, ma una suite orchestrale di 25 minuti mi sembra un modo gentile e bellissimo (una mano che accarezza gli occhi) per farci male, per dirci che “Siamo solo conchiglie sparse sulla sabbia / niente potrà tornare a quando il mare era calmo”.
E siccome noi di Dlso non ci facciamo scappare nessuna occasione per farci un po’ male ascoltando e riascoltando solo cose belle, l’abbiamo intervistato per saperne qualcosa in più a proposito di “Immensità”.
Immensità è un concept album stupendo, un’occasione musicale per abbandonarsi senza sentirsi abbandonati. L’hai definita una “suite” di 25 minuti, cosa la differenzia da un semplice album?
Grazie. Fondamentalmente si differenzia da un album per come è strutturato: sono nove tracce suddivise in 4 capitoli, con un brano cantato per ogni capitolo, ad eccezion fatta per il primo interludio che è anch’esso cantato. Una volta finito ho cercato di capire come si potesse chiamare un lavoro strutturato in questo modo, con preludi, interludi, conclusioni… mi sono fatto aiutare per trovare la giusta definizione.
Mi sembra un disco che non ha una direzione precisa – non va ad esempio avanti, o indietro, o dentro – ma dà l’impressione di espandersi come una goccia d’acqua sulla carta assorbente. Come quando si sente casualmente il profumo di basilico o di taverna e il naso si apre a festa, per ogni persona in un modo diverso, con la propria catarsi e le storie rievocate ben chiare nella mente. Quanto è importante per te che un ascoltatore ritrovi sé stesso nelle tue canzoni e quanto che trovi Andrea Laszlo de Simone?
Beh… allora… dal mio punto di vista è un disco che ha una direzione, soltanto che percorre un cerchio per cui arrivati alla fine tutto è pronto per ricominciare. Più che un cerchio in realtà, forse è una spirale. Bella però l’immagine della goccia d’acqua sulla carta assorbente… è un altro modo di vederla e non mi dispiace affatto. Per rispondere alla tua domanda ti dico che non penso al fatto che poi un disco debba essere ascoltato da qualcuno. Cerco solo di fare una cosa che per me abbia un senso compiuto… sono io il destinatario dei dischi che faccio… ma detto ciò mi auguro che chi li ascolti non pensi a me, perché sono l’autore, l’arrangiatore, ma non il protagonista…
I testi sono la parte principale dei brani o sono soltanto uno strumento musicale che accompagna la melodia?
Le parole normalmente le improvviso sopra alla canzone dopo aver completato l’arrangiamento. E’ una cosa che mi è utile per fare in modo che la musica non venga limitata dalla tematica del testo e contemporaneamente mi aiuta ad avere un contesto per le parole, perché ci sono tanti modi di esprimere lo stesso concetto. Le parole e la musica non sono parti separate, sono due ingredienti della stessa ricetta.
A differenza di Uomo Donna che era un disco molto umano e terreno, Immensità fa un salto verso l’alto e trova un’altra dimensione, diventando un progetto più etereo, elevato, sacro. Quali sono le tue cose sacre?
La solitudine ad esempio. Gli spazi di libertà in cui non si nuoce a nessuno. Ma credo tutto sommato di avere più “riti” che “Dei”. Per quanto riguarda la musica per me il rito più sacro è il momento di solitudine in cui registro le canzoni che coincide col momento in cui le compongo. Per quanto riguarda la vita “vera”, invece… il centro sono i miei figli.
Una parte molto importante di questa suite mi sembrano gli arrangiamenti. Come sai quando un lavoro è finito e pronto per farlo sentire a tutti?
E’ la cosa che amo di più, scrivere gli arrangiamenti è in assoluto la cosa che preferisco fare in ambito musicale. In realtà è un processo senza fine. Si potrebbe arrangiare all’infinito, dare ad una stessa canzone atmosfere completamente diverse. Normalmente metto la parola fine o perché sono esausto o perché provo la stessa sensazione che si prova quando si accorda una chitarra… quando giri la chiavetta e ad un certo punto senti che la nota è giusta e smetti di girare. Dopo di che, onestamente, non penso mai al momento in cui qualcun altro dovrà ascoltare, penso solo a fare in modo che vada bene per le mie orecchie, che mi sappia consolare.
Una cosa che mi piace molto è immaginare che i due album siano collegati anche dal tema del chiedere scusa, del perdonare: in Uomo Donna e più precisamente in Solo Un Uomo “potrei chiederti perdono / ma sono solo un uomo”, in Immensità “chiedere scusa per un errore / anche questa è immensità” (Conchiglie). Potrebbe essere il fil rouge che unisce le due dimensioni e a volte ci lascia scivolare nella nostra umanità e altre ci innalza verso l’immensità?
Sono collegati. Così come sono collegati anche ad “Ecce homo”. Sono angolazioni diverse, diversi punti di vista, ma il tema centrale è sempre l’uomo di fronte alla realtà.
Come speri che le persone si sentano ascoltando il tuo lavoro?
Mi auguro che si sentano bene e mi auguro che se proprio lo devono ascoltare lo ascoltino senza dargli più peso di quello che ha… è solo musica…
Ti riascolti spesso? Ascolti cose che musicalmente ti assomigliano oppure fai colazione muovendo i fianchi sul glam rock e in macchina ascolti soltanto sigle di cartoni animati degli anni 90?
Ahahahaahah! Come dico spesso, non sono affatto un ascoltatore di musica e non ho una buona conoscenza musicale. Anzi. Non ho mai sviluppato una buona propensione all’ascolto… ma amo moltissimo farla… sopratutto negli ultimi anni. Anche da bambino ho sempre giocato con la musica come si gioca con i lego. Ascolto moltissime volte quello che faccio, fino a che non finisco di farlo. Poi non lo ascolto più e cerco di fare di meglio nelle produzioni successive. Non sono mai soddisfatto.
Il mio capitolo preferito è il IV, Conchiglie. All’inizio le onde del mare che spostano i sassi e li fanno rotolare gli uni sugli altri, a metà un ticchettio di un orologio ci ricorda che il tempo sta passando, che non si può più tornare indietro, che bisogna lasciar andare le cose, che non siamo altro che conchiglie tra la sabbia. La sensazione alla fine di essere finalmente liberi. E’ per questo che tutto il progetto finisce con una marcia vittoriosa?
Dal mio punto di vista la marcia più che essere vittoriosa è imponente, inesorabile. Rappresenta la vita che va avanti severamente, al di la di tutto quello che ci accade. Conchiglie è la rinascita, la resurrezione. Un faticoso percorso di accettazione della realtà attraverso il naturale scorrere del tempo.
Ultima cosa: dimmi tre cose che ti fanno pensare a Immensità.
Ahahah sul serio? Te ne dico quattro: il sogno, la realtà, lo spazio e il tempo.