Settembre 2018. Al semaforo rosso sbircio il telefono e di sfuggita vedo un link, un articolo del Vulture: “The Perfectionist, un ritratto di Mac Miller”.
Penso lo leggerò questa sera con calma, sarà magari tutto quello che i miei amici ed io stiamo cercando di raccontarci a voce da quando è uscito Swimming.
Gennaio 2020, oggi. Il semaforo torna verde, poi rosso e ancora verde, qualcuno strilla maledizioni via clacson, quell’articolo è ancora aperto ma non sono pronto. Da qualche giorno abbiamo Circles. Non solo un album postumo, ma un’altra confidenza da tenere stretta: perché quello che non abbiamo più – quello che ci manca – è Mac Miller.
Che pensiero presuntuoso. Soffrire per qualcuno che è sempre stato ad un oceano di distanza, ignaro del tuo nome.
Sembra l’ennesima storia del 27 Club, un artista che non ha saputo rallentare prima del precipizio. Come può non aver visto il bordo?
Oltre all’orecchio sopraffino, la voglia di creare, le rime e la naturalezza sul palco, il talento più grande di Mac Miller era la capacità di snodare in parole semplici le sensazioni del profondo. Uno sguardo che forse, per quelli a cui oggi manca di più, si è spinto troppo in là. Sapeva analizzare gli stati della sua mente davanti a tutti. Oscuri o dolci, cercava di immortalare solo gli scorci più autentici.
“Don’t keep it all in your head
The only place you know
nobody ever can see”
Mac Miller – Once A Day
La storia di Mac Miller inizia prestissimo. A 18 anni, Blue Slide Park lo trasforma in una giovane star. Erano due decenni che un album hip-hop indipendente non arrivava in vetta alla classifica, ma il disco diventa presto la colonna sonora delle confraternite e Mac viene etichettato come un simbolo del privilegio.
Ci vogliono un po’ di anni, ma il ragazzino di Pittsburgh trova la redenzione, spinto da un amore incondizionato per la musica.
Con Macadelic del 2012 dimostra di saper fare rap, ma il primo progetto che fa ricredere la critica è Watching Movies With The Sound Off del 2013, un’esplorazione ambiziosa che coincide tristemente con l’inizio di una dipendenza. Da quel momento in poi la sua missione è evidente: proiettare se stesso nei suoni, fino a capire il senso di tutto quello che ha intorno.
La genuinità di Mac Miller è contagiosa, e le sue amicizie all’interno dell’industria gemmano con naturalezza. Cresce Malcolm, cresce Mac e cresce Larry Fisherman, pseudonimo da producer con cui contribuisce alla scena in modo meno esplicito, ma ugualmente legato alla missione originaria. Compone basi per SZA, Ab-Soul e l’amico Vince Staples, con cui discuterà apertamente della sua situazione di “rapper bianco”. Dalle produzioni ai featuring, cerca di illuminare con la sua stessa luce ogni artista che gli dia ispirazione.
Le collaborazioni sono sempre numerose, ma i nomi sparsi per la sua discografia non sono una questione di audience. I tre album che seguono Watching Movies sono sempre più coesi, sfruttano stili diversi solo per descrivere meglio le sfumature della psiche, filo conduttore assoluto. Alterna ritmi boom-bap classici a ballate r&b, e Miller è a suo agio in atmosfere dance come su classici arrangiamenti pop: Pharrell Williams un giorno gli consiglia di cantare di più, lui segue. Da GO:OD AM a The Divine Feminine e Swimming, emerge un cantautore intrappolato in una relazione meravigliosa con la verità.
Mentre realizza Swimming -tra il 2016 e il 2018- Mac incontra una sua grande ispirazione, il produttore e compositore Jon Brion. Dagli anni ’90 ad oggi, Brion ha contribuito ad una serie di momenti purissimi della cultura americana: dal debutto di Fiona Apple alle colonne sonore di Eternal Sunshine of The Spotless Mind e Magnolia, fino a Late Registration di Kanye West.
Un po’ per il bisogno di coerenza cinematografica, un po’ per la tendenza all’ordine sonoro, Brion sembra una scelta naturale per completare il progetto. Con il suo apporto, Swimming diviene un album magnetico, oscuro nella sua dolcezza e in continua evoluzione.
Nella mente di Mac Miller, è l’inizio di una trilogia: dopo la sintesi di Swimming, Circles sarà molto incentrato sul canto e la terza idea ruoterà intorno al rap.
Ma Mac Miller non può restare.
Qualche mese dopo l’overdose accidentale di agosto 2018, Jon Brion viene contattato dalla famiglia di Mac per riassemblare e finire Circles.
Il risultato è calmo e immacolato, ma imperfetto per natura. Si percepisce l’assenza di qualche scherzo di sottofondo, di collaboratori nascosti e strati di voce per catturare il suo umore; mancano alcuni marchi di fabbrica, è tutto nudo.
Lungo l’album, Brion compie il magnifico sforzo di farsi da parte. C’è spazio, c’è silenzio e gentilezza: non è un collage frettoloso, bensì un tributo pieno di rispetto.
Al primo, al terzo, al decimo ascolto è sempre più vivida la tentazione di interpretrare ogni verso come una profezia. Fingere che questo disco sia un qualsiasi consiglio di Spotify non ha senso, l’unico modo per
comprendere Circles è abbracciarne i difetti.
“Well, I’m way too young to be gettin’ old”
Mac Miller – Once A Day
Di recente ho letto il romanzo Where Reasons End, in cui l’autrice Yiyun Li si immagina una conversazione con il figlio defunto nella speranza di ritrovare qualcosa che le sia sfuggito. All’ennesimo scontro logico, la madre prova a spiegare al figlio perché ha deciso di chiudersi in se stessa: dice che è inutile resistere, visto che il mondo non si stanca mai di spegnere i lucenti.
Mac Miller ripete ossessivamente il contrario. Risplenderà nonostante tutto, riderà in faccia al mondo. La storia sembra averlo contraddetto in un attimo, porgendogli un dono a due volti: da un lato il talento, dall’altro una spietata affezione al dolore.
“I always shine
Even when the lights dim”
Mac Miller – Blue World
Se due anni fa Mac ci mostrava l’accettazione del tempo che passa, unita all’arte di galleggiare, due anni dopo ci ha consegnato un manuale di indicazioni. Sono direzioni chiare e fragili, mappe che non hanno paura di lasciare un deserto senza nome.
Mac Miller era sempre più vicino a conoscersi. Se nel 2011 una cartomante gli avesse mostrato una tastiera Fender Rhodes su un tappeto, lui avrebbe chiesto “E il beat dov’è?”. Oggi lo sentiamo cantare e balliamo, finiamo le sue frasi, ci chiediamo quanto diavolo fosse versatile e vediamo i più grandi artisti del nostro tempo rendergli omaggio all’infinito, sempre con lo stesso sguardo.
Malcolm McCormick non ha potuto chiudere il suo cerchio. A noi non resta che ascoltare, riascoltare e capire tutto quello che ha avuto il tempo di dirci. Forse alla fine vincerà la luce.
Ascolta la puntata dedicata a Mac Miller andata in onda su Radio Raheem.