Il ritorno sulla scena di Yves Tumor, l’artista americano più schivo di tutti, mi spiazza come nient’altro finora in questo 2020.
L’ho conosciuto al Club to Club 2018 e prima di allora c’era stato solo qualche ascolto sporadico, come per altre curiosità del festival: uno spettacolo coinvolgente, in cui il palco sembrava galleggiare nella nebbia di quei suoni eterei che contraddistinguono Safe in the Hands of Love. Una volta a casa però, escludendo Noid e Licking an Orchid, trovavo sfiancante ascoltare l’intero album.
L’uscita di Heaven to a Tortured Mind, invece, mi spalanca una porta sul suo mondo.
La personalità profondamente introversa di quel ragazzo queer di colore cresciuto in Tennessee si combina alla perfezione con la sua voglia aggressiva di rivalsa, dando sfogo a sentimenti probabilmente covati da troppo tempo. La dicotomia presente nello pseudonimo (il nome francese leggiadro Yves, bilanciato dal simbolo di distruzione Tumor) nasconde a tutti la sua vera identità: non si sa per certo neanche quanti anni abbia ma davanti ad un disco così godibile queste curiosità passano completamente in secondo piano.
Yves si discosta dai suoni tortuosi e sguscianti che trovavano massima espressione in Serpent Music (2016) e torna di prepotenza con un album destabilizzante e originale, come se fosse appena uscito dalla crisalide per prendersi il suo spazio in una dimensione più accessibile e “pop”.
Fin dal brano di apertura, Gospel for a New Century, ci troviamo immersi fino al collo nel tema dell’album: l’amore e le sue mille sfaccettature, in questo caso il bisogno impaziente di colmare la distanza con il partner (davvero azzeccato per questi giorni).
In Medicine Burn e Identity Trade, Yves canta del suo potere salvifico, quel concetto di paradiso per una mente torturata (vedi titolo), che raggiunge l’apice in Kerosene! dove la sua voce, unita a quella di Diana Gordon e ai riff di chitarra, urla la necessità di essere amati nel ritornello più struggente di tutti.
A questo punto inizia la parte più bella, la sezione centrale: dagli archi di Hasdallen Lights, si passa a Romanticist (la mia preferita) e Dream Palette, in cui basso e groove iniziano a dominare col contributo di altre voci femminili (quel “hard road” di Kelsey Lu mi riecheggia ancora in testa), fino ad arrivare a Super Stars dove tornano protagonisti solo Yves e le chitarre distorte, unendosi come i due innamorati.
Folie Imposée e Strawberry Privilege vedono l’amore consumato e vissuto fino all’ultima goccia, che confluisce nell’inaspettata strumentale Asteroid Blues, a suggellare un patto non scritto. Infine, come a voler completare un processo ciclico che ricomincerà dal principio, in A Greater Love l’amante torna a dubitare della resilienza del sentimento al passare delle stagioni.
Nonostante l’alta carica emozionale, il nuovo album di Yves Tumor scorre senza stufare, mantiene alte le promesse dei fantastici singoli ed è pronto ad essere ascoltato ancora alla ricerca di dettagli nascosti.
Il cantante americano, con la sua attitudine rock a volte mi ricorda il primo psichedelico Lenny Kravitz, altre la cadenza trascinata del cantato di un giovane Damon Albarn dei Blur ma si rivela in tutto il suo splendore come un’artista inimitabile, su cui casa Warp non potrà far altro che puntare.
Finisco il disco per l’ennesima volta e mi sento pervaso da uno strano ottimismo generale, manna dal cielo quando le ore sembrano assomigliarsi così tanto come in questi giorni: mi rendo conto che la mia giornata è migliorata e grazie a lui potrò migliorare anche le prossime.
Questo fulmine a ciel sereno, oltre a farmi ben sperare per il proseguo della stagione, dà conferma di quanto aiuto possa darci la musica nel resistere illesi a questo isolamento forzato.
Testo di Andrea Raimondo