C’è qualcosa di più spaventoso e più rassicurante della fine?
L’ultima parte, l’ultimo tempo di una cosa è anche l’ultima cosa che rimane, e non c’è nulla di più certo della fine.
Questa rotta verso l’incertezza è la nostra unica, rassicurante certezza.
Sono stati questi tempi infetti a ricordarci che siamo inevitabilmente esposti a una fine e che il linguaggio con cui siamo soliti comunicare ha avuto, al contrario, la pretesa di renderci infiniti, eroi infallibili, perfetti.
In maniera quasi profetica il nuovo disco di Colapesce e Dimartino, scritto ben prima della pandemia, ha introdotto nel pop un linguaggio cosciente della finitezza umana ma anche dell’infinita bellezza delle cose terrene, sebbene condannate all’estinzione.
Si intitola “I Mortali” perché è un inno alla vita, questa volta ancor più consapevole della morte e perciò più coraggiosa.
Quella che può sembrare una contraddizione in termini è, al contrario, una stretta di mano tra la cultura pop tendente all’eterno e il sentimento impopolare della fallibilità umana: Lorenzo e Antonio che parlano della fine del mondo, dell’ultimo giorno di scuola, di condanne a morte restituiscono una comunicazione sincera, senza illusioni e senza pietà.
E al contrario di quanto si possa dedurre da queste premesse, ascoltarli in queste 10 canzoni che sanno di apocalisse e di resurrezione è una delle cose più rassicuranti di sempre. Come la fine.
Di estinzione e pandemia, squali e panini con le panelle parliamo nell’intervista a Colapesce e Dimartino qui sotto.
Con questo disco avete fatto un lavoro di sottrazione delle vostre rispettive identità, in favore di una scrittura duale.
È un processo che se da un lato aiuta a mettere meglio a fuoco le cose in una prospettiva corale, dall’altro può risultare complicato perché implica un “venirsi incontro”, una strategia di compromesso.
Voi come avete fatto?
Dimartino: Ci siamo lasciati andare alla sperimentazione, in qualche modo ognuno si è fidato e affidato alle impressioni dell’altro, ne è uscito un mix di ricordi e situazioni che potrebbero benissimo appartenere a una terza persona.
Colapesce: Per scrivere in due sacrifichi alcune cose ma ne guadagni delle altre, è una terza via, ma la parola compromesso non credo sia adatta, suona quasi negativa. Il confronto e la condivisone a volte ci hanno allontanato dalla nostra comfort zone che è sempre un bene per la crescita artistica. Chiaramente abbiamo mantenuto la nostra poetica di fondo.
Credo che rilasciare un disco congiunto in un momento che ci costringe alla diffidenza e al distanziamento sociale, sia un messaggio romantico, ma soprattutto umano.
In questo senso che cosa vi ha tolto l’esperienza del lockdown e cosa sperate vi restituisca una volta chiusa?
Dimartino: Ci ha tolto la possibilità di portare a termine una parte importante del nostro lavoro che è quella di suonare, dall’altro lato il fatto di pubblicare comunque il disco ha fatto in modo che alcuni messaggi arrivassero più immediati, l’idea di non fermare la musica ma lasciarla scorrere ci sembrava un messaggio giusto da dare in questo momento. Non so cosa mi restituirà l’esperienza del lockdown probabilmente lo capirò quando sarà tutto finito. In generale però spero che possa portare la gente ad andare più a fondo nelle proprie riflessioni.
Colapesce: Ho preso il lockdown come un’opportunità per riflettere e lavorare sul nulla, mi ha allontanato, come tutti, dai miei impegni e dai miei amici e quindi anche dal palco, ma non per forza la sottrazione è un male.
Non so cosa mi restituirà, forse rimodulerà il mio modo di gestire il tempo ma ancora è presto per tirare le somme.
Il modo di fruire la musica è inevitabilmente cambiato, già prima del virus. Tre domande in una: 1. “Ma dove sono gli ascoltatori di una volta?” 2. Cosa ascoltavano gli ascoltatori di una volta? 3. Voi che ascoltatori siete?
Colapesce: Sono sopraffatti dalla pigrizia e spesso rimangono legati a un’idea della canzone che è figlia del loro periodo d’oro: l’adolescenza, non a caso il disco è carico di quell’immaginario. Non è necessariamente una cosa negativa ma spesso va così. Gli ascoltatori di una volta ascoltavano gli Smashing Pumpkins, Ok Computer i primi dischi dei Litfiba e un paio di pezzi dei 99 Posse. Io sono un ascoltatore curioso e spazio da Debussy a Taxi B. Poi come tutti ho i dischi e gli artisti del cuore che ti danno la sicurezza al di fuori della tua curiosità. Penso a Neil Young, Egisto Macchi, Coltrane, De Andrè, spesso è musica analogica, sono vecchio concedetemelo.
Dimartino: Gli ascoltatori di una volta sono stanchi e ormai hanno passato i trenta quindi escono poco.
Sicuramente ascoltavano i dischi per intero e non soltanto delle playlist quindi dedicavano più tempo all’artista.
Cerco di ascoltare molte cose nuove, ma alla fine i dischi che quando li ascolto mi commuovo sono sempre gli stessi che ascoltavo quindici anni fa.
Una volta Lorenzo ha scritto una cosa che penso mi tatuerò: “Il mare è il mio genere musicale preferito”. Credo che entrambi condividiate una imprescindibilità dal contesto marino: “I mortali” è un disco di appartenenza, inevitabilmente segnato dalla sicilianità e dalla salsedine.
Colapesce: Sono cresciuto in riva al mare e mi abbronzavo già a maggio, quindi quei suoni e tutto l’immaginario marino fa parte del mio dna. Nei mortali c’è tanto mare, io sono spesso in acqua mentre Antonio mi guarda dal bagnasciuga, è terrorizzato dagli squali, ma pure dai tonni grossi secondo me.
Dimartino: Mi hanno sempre affascinato i fondali anche se ho una paura immotivata per gli squali quindi difficilmente mi tuffo in mare aperto, preferisco stare in spiaggia. Mi affascinano i lidi di provincia dove puoi parlare coi bagnini.
Il live-movie che ha preceduto la release dell’album è praticamente il manifesto di questa territorialità viscerale che accompagna la vostra musica. Com’è venuta l’idea?
Dimartino: Abbiamo sviluppato tutto in pochi giorni, avevamo la necessità di creare un contenuto in cui ci fossero le canzoni suonate ma non solo, quindi ci siamo affidati all’unica cosa che riusciamo a fare molto bene che è quella di dialogare sulle cose che per al novanta per cento della gente appaiono inutili.
Colapesce: Volevamo evitare il solito contenuto con il live statico e qualche inquadratura rassicurante e quindi ci siamo inventati questa nuova formula a metà fra il film il documentario e il live. Senza sembrare troppo “Sereno variabile” anche se è un gran programma. C’è molta Sicilia ma poco folclore.
Colpisce di quest’album anche l’attenzione nei confronti delle produzioni: c’è un approccio molto fisico ai suoni e una ricerca che investe sul sound almeno quanto sui testi. Quali riferimenti vi portano in questa direzione?
Colapesce: Siamo cresciuti entrambi in delle band e quindi l’approccio ai nostri dischi ha sempre una fisicità che poco appartiene al mondo del cantautore classico. Abbiamo lavorato con diversi produttori proprio per mettere in luce questa cosa, Nardelli-Colombo, Mace, Frenetik & Orange, Mario Conte, tutte figure diversissime sulla carta, ma la cosa inaspettata è che il disco suona omogeneo, forse i testi e il nostro modo di suonare e di cantare ha fatto da collante. I riferimenti sono vari, volevamo un suono popolare e contemporaneo, gli americani sono maestri in questo. dai The Last Shadow Puppets a Kanye West.
“Raramente” è uno dei miei brani preferiti dell’album. Trovo ci sia una sospensione armonica rassicurante e poi il ritornello mi sembra qualcosa di incredibilmente perfetto.
Ci raccontate com’è nata? Sarei anche curiosa di sapere a questo punto qual è il vostro pezzo preferito del disco.
Dimartino: Raramente è nata da due pezzi diversi nel senso che io avevo il ritornello e Lorenzo aveva la strofa e la parola “raramente”, li abbiamo uniti ed abbiamo scritto il testo.
Il mio pezzo preferito è Majorana, ci rivedo molto me stesso.
Colapesce: Si è l’unione di due suggestioni personali, Antonio ha scritto la melodia del ritornello a Solarino il mio paese. Io avevo questa strofa da tempo ma non riuscivo a trovargli la compagnia. Mi piaceva la parola Raramente, parte tutto da lì.
Il mio pezzo preferito è forse Majorana, è lì discreto a chiusura disco e racconta benissimo la mia adolescenza, è prodotto da me e Antonio a Milano nel mio studio, con un microfono, un’acustica e una 12 corde.
Le atmosfere anni ’60 ritornano anche in “L’ultimo giorno” che, grazie ad Alfredo (n.d.r. batteria, synth e piano del brano) ho potuto ascoltare con un po’ di anticipo in un momento in cui alla fine del mondo non ci stavamo ancora pensando.
Alla luce di tutto quello che è successo poi, le atmosfere apocalittiche di questo brano hanno preso ancor più vigore.
Voi che ne pensate?
Dimartino: E’ un pezzo nato un paio di anni fa non ci immaginavamo che avrebbe assunto questo significato quando è uscito. In realtà parla, come altri pezzi del disco di due adolescenti, che in questo caso si dicono addio nel luogo più classico degli addii cioè la stazione.
Colapesce: Il disco ha vari elementi profetici, anche il titolo stesso: “i Mortali” è stato scelto in era pre-covid, non che prima non si morisse ma negli ultimi mesi siamo stati maggiormente messi davanti al rischio di estinzione, davanti al concetto di fine, di Ultimo giorno. È stato uno dei primi brani de I Mortali e anche l’anteprima dei disco insieme ad Adolescenza nera.
Il vocabolario di questo disco è piuttosto scuro, eppure si respira un sentimento ottimista. Non siamo immortali (questo virus ce l’ha ricordato), ma la musica ha il potere di farci sentire tali.
Come siete riusciti a trovare il punto di contatto tra questa sensazione di infallibilità e la caducità umana?
Dimartino: Inevitabilmente gli esseri umani da quando sono sulla terra parlano della morte per celebrare la vita, il nostro intento era scrivere un disco vitale non perdendo di vista mai l’orizzonte che comunque ci aspetta, se lo ascolti con questa prospettiva il disco è un inno all’ottimismo alla bellezza delle cose terrene seppure legate a una fine inevitabile.
Colapesce: Volevamo far pace col concetto di fine che è apparentemente in antitesi con la parola Pop, sempre rassicurante e tendente all’eterno, almeno nelle intenzioni, anche se spesso si esaurisce dopo pochi mesi. “In quest’epoca di filtri ci mancavano gli idioti della morte”: presenti.
Mi affascinano le definizioni e molto spesso finisco per perdermi nella storia delle parole. Come definireste un concetto come la morte?
Colapesce: Bufalino diceva che siamo dei morti in incubazione. Credo sia un concetto indefinibile per antonomasia, forse anche la parola “fine” è sbagliata. Questa domanda apre una voragine
Dimartino: Pur non praticando nessuna religione non riesco del tutto a sentirmi ateo quindi vedo la morte come “un appuntamento” a cui per tutta la vita devo prepararmi.
E invece la cosa che più si avvicina alla resurrezione?
Colapesce: l’orgasmo
Dimartino: Il panino con le panelle.