Your Hero is not Dead di Westerman è stato il mio album della quarantena.
Quando lo dico a Will (che di cognome fa Westerman, appunto, il suo nome d’arte) siamo circa a metà marzo, lui sorride dalla sua finestrella della videochiamata, sorpreso che l’abbia ascoltato quasi tre mesi prima della sua uscita.
È buffo in effetti, penso poi mentre rivivo a quella chiamata, che quel disco sia uscito il 5 giugno, quasi con un doppio effetto liberatorio. Doppio, sì: per me perché posso finalmente parlarne dopo averlo consumato, tra i pochi dischi che sia riuscita a mettere a ripetizione in un momento storico, quello di marzo-aprile-maggio, sprovvisto di colonna sonora; per tutti perché è il disco di Westerman necessario e terapeutico.
“È qualcosa di prezioso”, gli dico.
Seguo la musica di Westerman dalla primavera del 2018. Ricordo bene la prima volta che ho ascoltato Confirmation, un brano che riesce, come un piccolo miracolo, a creare un qualcosa di simile al culto e alla devozione, e che poi è diventata la sua canzone più famosa. Il brano, nonostante una costruzione armonica obliqua e sghemba, è uno dei distillati più lucenti di formule pop che abbia mai ascoltato – una formula che Westerman ha perfezionato col tempo.
Due anni dopo (e dopo diversi singoli, l’ep Ark e una direzione artistica sempre più chiara), ecco Your Hero is not Dead, il suo album di debutto che non fa altro che confermare lo stato di grazia di Westerman. La nostra chiacchierata parte proprio qui.
Westerman lo dice subito: “L’idea dietro al disco era fare qualcosa che potesse aiutare le persone. Personalmente trovo che gli ultimi due anni per il mondo siano stati durissimi e che avere una visione ottimistica del futuro fosse sempre più difficile. Mi piace pensare che il disco possa fare da supporto a chi non se la passa benissimo”.
“Your Hero is not Dead” è prodotto da un amico, Nathan Jenkins, producer elettronico che ha sempre pubblicato progetti con il nome Bullion. Da quanto vi conoscete?
Dal 2016, quasi da 4 anni. Ci siamo incontrati durante una serata in un pub, ero lì per suonare roba mia acustica. Siamo subito andati d’accordo e da allora non ho lavorato con altri producer: sento la musica come una cosa molto intima e riuscire a fidarmi di un’altra persona è davvero difficile, ti fa sentire in qualche modo scoperto.
Ancora di più se stai lavorando al tuo album di debutto.
Penso che soprattutto all’inizio sia facile incasinare la tua idea di musica con una produzione sbagliata. Sono sempre stato super-attento che non accadesse.
Ecco, dicci. Per l’album c’è stato sin dall’inizio un approccio chiaro, una direzione da seguire?
Penso che entrambi abbiamo voluto espandere il suono delle registrazioni che avevo fatto da solo e che avevano come punto di partenza la chitarra ritmica e delle aggiunte di synth. Ecco, con Nathan abbiamo cercato di svincolarci dalla chitarra come strumento principale preferendo partire dall’arrangiamento, dalla cornice, dal sentimento della canzone stessa.
Eppure trovo che la chitarra con un grande effetto di chorus sia uno dei tuoi marchi di fabbrica…a proposito che chitarra usi?
Principalmente una Fender Musicmaster con un classico Roland Jazz Chorus, un amplificatore con un bel chorus incorporato che ho usato quasi per tutto l’album.
Beh, è una chitarra con un suono ben squillante e tagliente che in qualche modo controbilancia la personalità più morbida e rotonda della tua voce. Sempre una curiosità sulla chitarra: usi un’accordatura aperta tipo drop-D?
Sì, a volte perfino una drop-C. Trovo sia sempre stimolante sperimentare con accordature diverse. Dopo un po’ che si suona, il cervello s’impigrisce e si finisce a fare sempre le stesse forme di accordo e gli stessi movimenti. Un’accordatura diversa non standard ti costringe un po’ a resettare la conoscenza che hai dello strumento facendoti reimparare a suonare da zero. Trovo sia un buon modo per scrivere, ti fa sperimentare e scoprire cose tutte diverse evitando che il processo compositivo risulti un po’ noioso.
Capita anche a me. Quando la chitarra si scorda lascio che le cose vadano per la loro strada senza raddrizzarle troppo…Ma torniamo a parlare dell’album, partendo dai testi. Sai, ho sempre pensato che nel momento in cui si buttano giù delle parole, queste fluttuano in uno spazio che l’autore determina; poi quando pubblichi la canzone, è come se le parole abitassero nuovi spazi. Non sono più un tuo riflesso ma diventano altro. Tu che ne pensi?
Sono d’accordo. Quando scrivo non cerco di essere oscuro e confuso in modo deliberato ma cerco di scrivere testi che non seguono totalmente le regole. Credo sia interessante sempre guardare i testi, ma credo possa esserlo maggiormente se si analizzano i motivi che spingono qualcuno a scrivere. Per me è una prospettiva più universale: i motivi, il processo, il percorso. A questo proposito sento di aver appena iniziato una strada. Sempre riguardo le parole e la narrazione, sono convinto che abbiano un ruolo ben più importante, non solo nei confronti di una singola canzone, ma debbano servire allo scopo di delineare l’atmosfera complessiva di un album.
A proposito di atmosfera complessiva. L’album ha portato con sé una nuova versione di “Confirmation” che, ti confesserò, mi ha un po’ sconvolto – forse perché ero affezionatissima alla versione del 2018. Ma penso che nell’economia dell’album, questa versione ci stia perfettamente.
Sì, proprio per quel motivo è stata riarrangiata. Il paesaggio sonoro della prima versione non c’entrava molto con l’atmosfera dell’album: era più confusa, più morbida sugli angoli. In più Nathan voleva assolutamente darle una nuova produzione e includerla nell’album – io ero più scettico, invece, volevo solo roba nuova. Ci siamo trovati molto a pensare che il sentimento della canzone fosse perfetto per l’album ma dovessimo pensare a una sonorità un po’ diversa. Adesso c’è una coda sonora che mi piace tantissimo. Un discorso totalmente diverso è stato fatto per Easy Money che non abbiamo toccato – andava benissimo col resto dei brani.
Ecco. Ho trovato estremamente compatto l’album da un punto di vista sonoro. E poi c’è un tema melodico ricorrente: in “Drawbridge” è quasi presentato “a cappella”, in “Waiting on Design” è accennato in un giro di piano fino a espandersi in un abbraccio nella splendida traccia conclusiva (e risolutiva) omonima al titolo del disco, “Your Hero is not Dead”.
Uh, grazie di essertene accorta!
Ok, ma ora c’è la domanda stupida. Questo concetto dell’eroe centrale all’album mi porta a chiederti cosa è per te una figura eroica.
Un eroe può essere una persona che rispetto. In realtà vedo quest’idea dell’eroe non tanto calato su una persona specifica quanto come un concetto che descrive benissimo l’atmosfera dell’album, che poi per me era la cosa più importante.
Un eroe potrebbe essere qualsiasi persona. Forse sei tu. Non importa. Per me your hero is not dead è una frase che dice “sai che c’è, non ti abbattere, non è successo nulla di che, l’eroe non è mica morto”. Una sorta di consapevolezza di una qualità che hai in te.
Quindi è un messaggio consolatorio, come a dire “va tutto bene, non è tutto perduto”
Qualcosa del genere. Penso che l’idea dell’eroe sia affascinante ma anche molto pericolosa perché porta a compiere una ricerca all’infuori di sé e a elevare alcune persone a un livello super-eroico e sovrannaturale. In realtà, forse, bisogna solo cercare di fare un lavoro su di sé e capire che dentro di noi quelle qualità ci sono sempre state. Tutto qui.
Your Hero is not Dead di Westerman è pubblicato da Partisan Records, fuori dal 5 giugno
foto di apertura di Bex Day