Max Roach – Members Don’t Git Weary
Nel 1960, Max Roach era già famoso per le sue doti soprannaturali da batterista, affinate insieme a grandi maestri del jazz come Duke Ellington. In quell’anno, il disco We Insist! Freedom Now Suite associò per sempre il suo nome anche a un atteggiamento senza compromessi, carico di orgoglio afroamericano. Allo scalpore, Roach rispose con una semplice promessa: da quel momento in poi, ogni suo lavoro sarebbe stato ricco di significati sociali. Grazie a caratteri come il suo, gli anni successivi furono il cuore della “civil rights era”, culminata nel 1968 con le rivolte urbane contro i simboli del potere bianco.
Proprio nel 1968 esce Members Don’t Git Weary. Le sei tracce dell’album riassumono tutte le tendenze del jazz di fine anni ’60: l’improvvisazione come pratica legittima della musica libera, il soul che prende piede (come denota l’uso del Fender Rhodes su Absolution), il blues come fonte di profezie. Tra speranze per il futuro e insegnamenti tratti dal passato, la title track dell’album si erige sul presente come una bandiera. Dalla tensione di fondo emerge un mantra, ripetuto ossessivamente con una dignità indistruttibile. I canti spirituali della musica black vengono adattati alla necessità di una ribellione continua: i ritmi incalzanti servono a marciare, la molteplicità di suoni fa in modo che ognuno possa seguire lo strumento di cui ha bisogno e trovare la propria voce.
Oltre 50 anni dopo, l’urgenza di quest’opera è ancora tristemente attuale: “Members don’t get weary / For the work is almost done”, cioè “non mollate, ci siamo quasi”.
Il jazz di Max Roach, al pari di tutta la musica catalogabile come post-bop, prendeva in prestito alcuni elementi del free jazz mentre manteneva quasi intatte alcune regole del jazz tradizionale. Il risultato era una sorta di libertà organizzata, un principio che riflette ciò che sta accadendo oggi in America e nel mondo: l’obiettivo è la libertà, e il mezzo per ottenerla è l’organizzazione di un movimento.