Siamo in una rimessa industriale, Kanye West si alza dal banchetto a cui siedono la sua amante-fenice e un gruppo di amici che lo guardano con un misto di ammirazione e disgusto. Cammina spavaldo con lo sguardo alienato di sempre, si ferma di fronte a un pianoforte, suona un Mi per un numero di volte che sembra infinito. Al suo seguito arriva una corte di ballerine, e solo allora può iniziare la canzone.
“Look at ya!”, grida un sample dell’icona funk Rick James, guarda caso un uomo che viveva di protagonismi e controversie. In origine un urlo di compiacimento, in Runaway questa frase suona subito come un’accusa: “Guarda cosa sei diventato!”.
L’autocommiserazione di Kanye dura ben poco. Arrivato al ritornello, propone un brindisi a tutti i cialtroni (“a toast to the assholes”), come fosse un’élite di intenditori. Élite di cui Kanye, in piedi sopra il pianoforte, fa parte con grande orgoglio. Dice alla sua amante di fuggire finché è in tempo, ma è un’avvertenza talmente plateale che il suo fascino ne supera la severità. Come i messaggi sulle sigarette scritti in un font troppo elegante, Kanye indossa lo smoking mentre canta i suoi errori. È una pubblicità contro il narcisismo, ma è orchestrata da un narcisista vero: il risultato ci tiene incollati per oltre nove minuti.
Kanye West sente il peso delle perversioni culturali che rappresenta. Con gli occhi addosso nel momento più luminoso della sua carriera, si sente quasi costretto a mettere in scena un inno all’egocentrismo. Come ha sempre fatto, mette al centro della sua musica i sample, e lo fa per due motivi contrastanti: da un lato vuole tornare con la mente a tempi più semplici, quando ancora nessuno si aspettava nulla da lui; dall’altro, vuole circondarsi delle voci di James Brown, Otis Redding e altri nomi grandissimi che vuole sentire menzionati insieme al suo.
Dieci anni dopo, siamo qui a vedere – anche se chiudiamo gli occhi, anche se giriamo la testa – quanto alcune di queste perversioni abbiano preso il sopravvento su di lui, e come lui provi a reagire nei modi più estremi, con sempre meno successo e sempre più imbarazzo. Lo stesso desiderio di spettacolo che alimenta il suo personaggio e che ogni tanto gli permette di sorridere, è diventato il mattone che lo fa precipitare in un vortice. Dubbi e amor proprio sono diventati parti di una stessa nube. Certo, non è compito nostro giudicare la sua gestione di una condizione delicata come il bipolarismo, ma sappiamo anche che è stato proprio il doppio volto di Kanye a rendere inevitabile la sua ascesa. Ora che sta andando giù, i riflettori farebbero bene a spegnersi, anche solo per una volta.
Da una concezione irragionevole della religione alla pubblica profanazione del Grammy Award nel WC di casa sua, passando per l’irrazionale corsa alla presidenza e lo sfogo contro l’industria discografica. Le contraddizioni di Kanye West sono, almeno in parte, le contraddizioni del tempo.
Runaway oggi ha un sapore diverso, perché i tre minuti finali di delirio in Auto-Tune sembrano il seme di mille ire germogliate tanti anni dopo. Perché, con tutte le attenuanti che si possono trovare, Kanye è ancora intento a celebrare la sua verità senza filtri, ma anche ad aggiungere un ‘però’ a tutte le richieste di perdono e brindare alle sue idee più disinformate.
Tolti mille sospiri, ancora oggi è difficile staccare gli occhi da quel piano, e alla fine dei conti un brindisi non si toglie a nessuno.
“Scappate”, ci avverte. Noi, con gli occhi pieni, restiamo fino ai titoli di coda.