Il termine afrobeats nasce per un’esigenza di marketing.
Intorno al 2010, molte comunità nigeriane in Gran Bretagna iniziavano a diffondere in tutto lo UK i ritmi dell’Africa occidentale.
Per rendere appetibili questi nuovi generi e apporre un’etichetta alle serate nei club è stato coniato un termine ombrello che, pur trascurando le sfumature della musica in questione, sarebbe poi stato cruciale per accrescerne la popolarità.
In dieci anni sono cambiate molte cose, e oggi Barack Obama inserisce un pezzo di WizKid e Tems nell’elenco dei brani che lo hanno aiutato a respirare in questo meschino 2020.
Anche se le sonorità del pop nigeriano e africano hanno ampiamente superato i confini del continente, non è facile avvicinarsi a una scena così nuova con il giusto rispetto.
Cerchiamo di delineare un quadro generale.
Le star indiscusse
Alcuni dei protagonisti dell’afropop hanno catturato l’attenzione anche degli ascoltatori sporadici.
DaVido è un feat. ormai costante per i rapper di successo, tanto che nel suo ultimo album compaiono Nas, Nicki Minaj e Lil Baby. WizKid nel 2016 collaborava con Drake e Skepta presentando al mondo intero i suoni di Lagos e dintorni – quattro anni dopo, si gode ancora il confine tra mainstream e sperimentazione. Burna Boy, invece, ha avuto una crescita vertiginosa, che nel 2019 lo ha portato a vincere il premio di Best International Artist ai BET Awards. A ritirare quel premio si è presentata la madre di Burna Boy, che sul palco ha ricordato a tutte le persone nere “che sono africane prima di ogni altra cosa”. Un discorso breve ma straripante d’orgoglio, che suona come un monito contro la generalizzazione. Questa musica è così distante da noi che di sfuggita potrebbe sembrare semplicemente una festa; una frase simile, invece, ci ricorda da dove provenga questa musica, e ci fa riflettere sul percorso tormentato che deve intraprendere per raggiungerci.
Se Burna e le altre superstar continuano a espandere i confini di influenza del genere, l’industria musicale – e i meccanismi perpetrati da rotazioni e algoritmi vari – tendono a normalizzare il genere in un’unica sfera. Fortunatamente, molti artisti hanno idee ben diverse.
La scena alté
Negli ultimi anni, nei pressi della capitale Lagos, è germogliata un’intera comunità – o meglio, un ecosistema di giovani artisti – il cui tacito scopo è quello di infrangere le regole. I musicisti e i creativi della scena alté (termine derivato da alternative) sono stanchi di aderire alle tradizioni imposte dai generi, musicali e non: l’immaginario associato alla loro musica, che spazia dall’hip-hop al funk passando per influenze reggae e persino indie rock, include gioielli, accessori ed espressioni fluide e libere. Un affronto sorridente alle rigide norme di genere che da sempre dominano la nazione.
Nel 2019, il cantante e producer 23enne Odunsi The Engine spiegava al Guardian che le prime reazioni positive alla sua musica erano arrivate da nigeriani emigrati all’estero nella cosiddetta diaspora. Artisti come lui, infatti, trattano temi freschi e audaci, lontani anni luce dal conservatorismo della cultura di Stato. Proprio per questo, la carriera dei musicisti alté è iniziata su Soundcloud. Senza il filtro di etichette e classifiche, hanno potuto trovare la loro identità un esperimento alla volta.
Cruel Santino (precedentemente noto come Santi) è un’altra figura eclettica dell’ambiente alté: in un’intervista a The Fader, il 27enne si dice speranzoso per la prossima generazione di artisti africani, che saranno ispirati dalla mentalità incorruttibile di tutti questi creativi. Il loro approccio enciclopedico li rende impossibili da catalogare, e quindi aperti a qualsiasi missione. La pagina Wikipedia di Lady Donli, per esempio, la descrive come una cantante e cantautrice hip-hop, alternative r&b, alternative jazz e afrobeat. Chissà se presto non si aggiungeranno altre voci.
Questi artisti stanno finalmente compiendo un’impresa che un decennio fa era inimmaginabile. La musica africana oggi non è più un ‘mood esotico’, non è più pensata come un ammasso uniforme di suoni giocosi e poco familiari. Progetti come l’ultimo EP di Tems, For Broken Ears, o l’album APOLLO di Fireboy DML, rappresentano un paesaggio di ritmi infiniti e melodie coloratissime, capaci di sorprendere sia per le produzioni calcolate al millimetro, sia per il coraggio delle espressioni vocali, ispirate ad altri generi ma subito tradotte in esplorazioni uniche.
Il resto del mondo
La missione, però, non è ancora finita. Se nel Regno Unito quest’anno è stata indetta la classifica ufficiale Afrobeats, nel resto del mondo c’è ancora molta strada da fare. Una delle più grandi hit del 2020, Djadja di Aya Nakamura, fa parte dell’universo afropop sia per le sonorità, sia per le origini maliane della cantante. È facile però che in USA o in Italia venga archiviata semplicemente come l’ennesimo tormentone ‘straniero’, senza provocare slanci di curiosità verso questi generi musicali emergenti.
Un caso particolare è l’album sorprendente di Amaarae, THE ANGEL YOU DON’T KNOW, che ha conquistato il pubblico oltreoceano ancora prima di essere accettato dai suoi compaesani in Ghana. Amaarae unisce atmosfere africane a un lessico appartenente alla trap e all’r&b, in un vero e proprio slalom tra meridiani e paralleli. Segno dei tempi che stanno cambiando, con linguaggi che si mescolano senza necessariamente perdere ricchezza.
Nei prossimi anni, il mondo avrà una chance per riconoscere all’afropop l’impatto innegabile che sta avendo. Nel frattempo, la major discografica Universal ha esteso le sue operazioni in Africa occidentale, Def Jam ha inaugurato una sezione locale della label e Apple Music ha lanciato il programma Africa Rising per offrire una piattaforma ai nuovi talenti. E le benedizioni fioccano: per l’album ispirato a The Lion King, l’anno scorso Beyoncé ha coinvolto Tiwa Savage, Burna Boy, Tekno e molti altri interpreti del continente. Il rischio di una dirompente appropriazione culturale c’è, ma la fioritura continua di nuovi artisti africani è una grande speranza per la musica di tutto il mondo.