Se incontrassimo i Daft Punk per strada, forse non ce ne accorgeremmo nemmeno. Per tutti – dai fan più esigenti della musica elettronica a tre generazioni di giovani senza distinzioni – i Daft Punk sono sempre stati due robot. Due menti geniali in visita sulla Terra, custodite da un casco d’oro e uno argentato.
Non è facile dire se i loro costumi abbiano reso le loro canzoni meno umane o, al contrario, più uniche ed emozionanti. Ma rivisitare la loro carriera oggi, a vent’anni dalla loro pietra miliare Discovery e pochi giorni dopo la loro separazione, significa cercare una collocazione logica a un fenomeno che ha sempre agito al di fuori di qualsiasi regola spazio-temporale.
Prendiamo Discovery.
È il 2001, e i Daft Punk vengono dal grande successo di Homework, un album d’esordio composto con grande spontaneità, pubblicato nel 1997 e acclamato per la sua interpretazione sfacciata e dinamica della French house. Come per il primo album, Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Cristo lavorano a Discovery sia insieme che separatamente – questa volta, cercando esplicitamente una nuova direzione per la loro musica. Non c’è più l’acidità di Homework, sostituita da un tentativo di immortalare in musica e in stimoli visivi (come il film d’animazione Interstella 5555) la gioia assoluta. E quando la gioia sembra esaurirsi, subentra l’ironia: dopo le celebrazioni di One More Time, Aerodynamic e altre 11 tracce irresistibili, l’album si chiude con un pezzo di 10 minuti intitolato proprio Too Long.
Ispirandosi alle emozioni forti del cinema e ai loro ricordi d’infanzia, i Daft Punk trovano un modo per tingere di nostalgia il loro nuovo disco: improvvisano o riprendono canzoni d’altri tempi, e dopo averle suonate, campionano se stessi e cercano ritmi nuovi tra l’Eurodisco e la New York Garage. In Face to Face, per esempio, un sample soul del 1972 diventa una base house zuccherina; la voce passionale di Romanthony rende la musica più sensoriale, e un cartone animato ambientato nell’iperspazio ritrasforma il tutto in un’allegoria irraggiungibile.
Il passato, filtrato dal presente, proiettato nel futuro.
L’impatto dei Daft Punk, dicevamo, trascende il tempo. Negli anni, gli artisti devoti ai Daft Punk sono impossibili da contare: dal pezzo Daft Punk Is Playing At My House degli LCD Soundsystem, passando per i sample usati da Kanye West e mille altri, fino alle voci infinitamente processate della PC music odierna.
La prima vera ondata di musicisti che portano alla mente la stessa energia dei Daft Punk emerge però intorno al 2007. In quegli anni, solo in Francia, sorgono fenomeni come i Justice, i Digitalism, Boys Noize e Mr Oizo: un’elegante ribellione chiamata semplicemente ‘electro’, la cui capacità di innovarsi in modo decisivo, tuttavia, durerà giusto un paio d’anni. Tutt’altra storia, ovviamente, i Daft Punk.
Se il loro terzo album Human After All e la colonna sonora composta per il film Tron sembrano poter sbiadire l’eredità del duo, nel 2013 il loro quarto disco li consacra per sempre nell’olimpo del pop. Tra la copertina iconica, le collaborazioni nostalgiche (finalmente Giorgio Moroder, da sempre una loro ispirazione) e l’approvazione unanime del mondo intero, Random Access Memories è un trionfo. E ancora una volta, un trionfo senza tempo. Se qualcuno ascoltasse per la prima volta i Daft Punk senza saperne nulla, potremmo dire loro che si tratta di un duo emergente che usa i campionamenti per spiegare l’essenza dell’amore. Allo stesso modo, potremmo raccontare loro che abbiamo ripescato queste canzoni da un disco del 1987. In entrambi i casi, nessuno sospetterebbe nulla.
Esagerazioni, iperboli, lodi: i Daft Punk si sono guadagnati tutto questo raccontandoci le mille facce dell’esperienza umana senza il bisogno di mostrare i loro volti.
D’altronde, dallo spazio è tutto più chiaro.
Nella valanga di tweet scritti in risposta allo scioglimento dei Daft Punk, uno dei più sinceri è arrivato da Sam Valenti IV, fondatore dell’etichetta Ghostly International che, come tutti gli appassionati di musica elettronica, è eternamente grato ai due eroi con il casco.
“Ho incontrato Thomas Bangalter senza maschera a una festa in piscina a Los Angeles, era il 2010. Ci ho chiacchierato un po’, ero nervoso. Lui mi ha spiegato che tutto quello che facevano i Daft Punk doveva essere nuovo. Non erano in grado di ripetersi.”. Valenti chiude il tweet come farebbe chiunque dopo aver incontrato i propri idoli. Sceglie una parola epica, che ormai viene usata con leggerezza, ma che riferita alla natura sovrumana dei Daft Punk assume mille significati in più:
“Legends”.