So many of us have gone astray,
doing wrong for so long that we’ve forgotten the way.
Please bring us back home […],
we’re just children that act grown.
Il 17 marzo 2019, durante il Sunday Service di Kanye West, il diacono Earl Simmons recitava una preghiera che aveva scritto e pubblicato 13 anni prima sul suo sesto album Year of the Dog…Again. La stessa preghiera si ritrova in A Dog’s Prayers, un EP uscito il 9 aprile scorso, poche ore prima che la famiglia decidesse di porre fine all’agonia di quel diacono noto a tutti come DMX.
Quella di DMX è una storia fatta di numeri, la classica storia in cui il liricista viene totalmente eclissato dal personaggio. Ad oggi, egli è l’unico artista di qualunque genere musicale ad aver mai debuttato alla n.1 della Billboard 200 per cinque volte consecutive. Ma per un occhio superficiale questo è nulla in confronto a quindici figli da nove compagne diverse, trenta permanenze in carcere per i più svariati capi d’imputazione e tre tentativi di disintossicazione miseramente falliti.
Non siamo qui per assolvere i peccati di nessuno, ma per capire un fenomeno chiamato street credibility.
Agli albori degli anni Ottanta, in un appartamento di St. Albans, Queens, un giovanissimo Q-Tip cresceva circondato dalla collezione di dischi jazz del padre e frequentava una buona scuola pubblica a Lower Manhattan. Nello stesso momento, nella quarta città più popolosa dello stato di New York, un bambino di 7 anni finiva in prigione per aver rubato delle torte in un supermercato.
Qualche anno dopo il padre lo abbandonava tra le braccia di una madre violenta e fanatica, che finirà per lasciarlo in una casa famiglia dopo averne abusato fisicamente e psicologicamente per lungo tempo. Ed è qui che a 14 anni quel bambino diventerà DMX dopo aver conosciuto Ready Ron, la croce che lo introdurrà al crack marchiando a fuoco la sua dipendenza dalle droghe, ma anche la manna che lo spingerà ad esplorare il mondo del beatboxing e del freestyle. Ecco dunque alcune delle innumerevoli ragioni del netto contrasto tra la consciousness di alcuni artisti come ATCQ e la roughness di altri che come DMX hanno smesso di avere paura della morte già da adolescenti.
And for as long as I can, as long as you permit me
Please give me the strength I need to live, bear with me
Amen
Per chi non lo conosce a sufficienza, il suo secondo album Flesh of My Flesh, Blood of My Blood è un riassunto significativo del travaglio interiore di DMX e degli obiettivi per i quali, dopo quasi due ventenni, si trovava ancora a combattere contro le sue dipendenze e a cancellare interi tour per riprovare a farcela ancora una volta. Una richiesta disperata di aiuto suona poco credibile dalla bocca di un rapper multiplatino. Eppure, il testo di Slippin’, primo singolo estratto dall’album, non era altro che questo. E uno sguardo ai primi secondi del videoclip, che sembrano un flashforward inquietante degli eventi del 9 aprile, non fa altro che confermarlo.
And by all means I will be living high off the hog
And I never gave a f**k about much but my dog
That’s my only, I had offered my last
Just another little, headed nowhere fast
Nel 1984, a 14 anni, Earl Simmons finisce in prigione per aver rubato un cane. Ed è qui che The Dog diventa il suo animale guida, perché è proprio durante questa detenzione che DMX comincerà a scrivere quelle rime che 15 anni dopo lo porteranno ad entrare nei Ruff Ryders, affiancare Jay-Z nello storico The Hard Knock Life Tour ed entrare definitivamente nell’olimpo dell’Hardcore Hip Hop.
Di certo non è un caso né un vanto il fatto che i king della Golden Era abbiano scritto le loro rime migliori mentre scontavano i propri errori sulla branda di una cella.
Ma in tutto questo c’è qualcosa che non possiamo non amare.
Per quanto incredibile, c’è sempre qualcosa di apprezzabile nella deprecabile vita di un rapper con un passato da criminale.
E quel qualcosa è la verità di ciò che racconta.