Siamo a New York. È una fredda giornata della fine degli anni ’90 e Jonathan Davis, come ogni mattina, prende la metro per spostarsi dal Queens a Manhattan. Mentre è intento a fare le sue cose, scorge il viso noto del suo amico d’infanzia, sempre uguale a quando, all’età di due anni, si erano conosciuti in chiesa: “Hey Phife! Il mese prossimo comincio a registrare un nuovo album… mi piacerebbe averti dentro per un paio di tracce, ma stavolta devi fare sul serio”. È così che Phife in persona, in un’intervista del 2015, racconta di aver ricevuto da Q-Tip la proposta di fare la storia del jazz rap in quel capolavoro che esattamente trent’anni fa avrebbe visto la luce con il titolo di The Low End Theory.
Dopo l’uscita del primo disco degli A Tribe Called Quest, Phife aveva scoperto di avere il diabete e, per questa ragione, aveva considerato l’idea di allontanarsi dal gruppo. Per fortuna questo non è mai accaduto, anzi: le session di registrazione di The Low End Theory diventano per lui un’occasione di riscatto, non solo per parlare di sé, ma anche per affrontare insieme a Q-Tip temi socio-politici estremamente rilevanti per il periodo, primo fra tutti la condizione degli afroamericani nella sedicente progressista dei primi anni Novanta.
Listen to the rhymes, then get a mental picture
Of this black man, and black woman fixture
Why do I say that? ‘Cause I gotta speak the truth, man
Doin’ what we feel for the music is the proof…
Con The Low End Theory gli A Tribe Called Quest prendono definitivamente le distanze dai temi più frivoli affrontati nel loro primo lavoro e, insieme ad altri gruppi tra i quali De La Soul, Gang Starr e Digable Planets, stabiliscono finalmente una controparte conscious del gangsta rap e dell’hardcore hip hop. O almeno, questo ci piace raccontarci: la versione demo di Show Business, ad esempio, era intitolata Georgie Porgie e cavalcava un’onda omofoba sfortunatamente comune nell’estremismo machista del panorama hip hop di quel periodo.
Ma senza riflettere troppo su tutto ciò che avrebbe potuto essere e per fortuna non è stato, è forse la cifra stilistica musicale l’elemento più distintivo di The Low End Theory. The Low End, le frequenze cupe delle basslines, insieme a un suono pastoso e a riffs e drumbreaks noleggiati dal panorama jazz, vengono imbastite da Q-Tip e rifinite da Ali-Shaheed fino a definire un’identità così iconica da essere ancora oggi imitata ma mai duplicata.
Nella cornice di un’elegia alla linea di basso com’è questo disco, non poteva ovviamente mancare la partecipazione del bassista più chiamato della storia del jazz e non solo: con 800 e più dischi all’attivo, anche Ron Carter infatti prende parte alle sessions di registrazione di The Low End Theory, anche se di malavoglia: “un giorno ricevo una chiamata da questa persona di nome Q-Tip, che mi dice che sta mettendo insieme un disco con la sua band di nome ATCQ e mi chiedeva se fossi disponibile a registrare una traccia soul rhythm”, racconta con l’aplomb che lo contraddistingue ad un intervistatore dell’ultima ora. Per fortuna, dopo una fase di scetticismo dovuta al linguaggio scurrile usato dagli ATCQ nel loro primo album, Ron Carter si fa convincere dal figlio a recarsi in studio a registrare Verses from the Abstract e il resto è storia.
Raccontare dopo trent’anni un masterpiece come The Low End Theory non significa solo guardarsi indietro e onorare l’assenza di chi come Phife Dawg ci ha prematuramente lasciato: infatti, artisti come Kendrick Lamar, Nas, Kanye West e Madlib hanno citato questo album tra le più grandi influenze della loro carriera. Questo non fa che aggiungere valore alle coincidenze astrali che, su quel treno in una mattina di tanto tempo fa, portarono Phife ad accettare l’invito di Q-Tip e Ali Shaheed di mettere al mondo una gemma preziosa che ancora oggi continua a plasmare il jazz rap per come lo conosciamo e che, per questa ragione, non riusciamo a smettere di ascoltare.