A pensarci oggi sembra un sogno lucido.
Nel 2016 (durante il picco mondiale della trap) è uscito un disco apparentemente fuori dal suo tempo, ispirato in tutto e per tutto alla tradizione funk americana degli anni settanta. Non solo: a confezionare quel disco è stato l’ex nerd del rap, Childish Gambino aka Donald Glover. È successo sul serio, e “Awaken, My Love!” da allora ha vissuto almeno due o tre vite diverse: successo globale, album che è sembrato presto superato dall’esplosione poliedrica del suo stesso autore, meme vivente.
Riflettere dopo cinque anni sulle sorti del disco è l’occasione per esaminarne a mente fredda il lascito più o meno sottile ma sicuramente importante, per il suo autore e per una buona fetta di musica odierna.
Donald Glover non ha mai alimentato il rumore. Come una specie di supereroe dell’intrattenimento, arriva, colpisce (ad oggi facendo sempre centro) e poi torna nell’ombra. Senza aspettare che partano gli applausi e, sembrerebbe, senza cercarli. Senza provare a mantenere alta nessuna tensione mediatica tra un progetto e l’altro, ad alimentare l’interesse secondo le modalità dell’hype – concetto che dal mondo streetwear è finito per diventare universalmente fondamentale. Questa modalità probabilmente ha salvaguardato un’altra “tensione”, assai più importante: quella creativa. Forse infatti è proprio grazie a questo approccio disinteressato a tutto meno che al progetto diverso di volta in volta, che in questi Glover ha saputo mantenere uno sguardo originale, apparentemente scevro dal rumore di fondo.
“Awaken, My Love!” è stato il primo grande manifesto di questa sua capacità. L’unico easter egg, l’unica piccola perla che si è concesso in anticipazione all’album, è stato l’inserimento in sordina della copertina nella nona puntata della prima stagione di “Atlanta”.
Agli appassionati di musica in realtà quel dettaglio sullo sfondo non era sfuggito. Troppo chiara la citazione, troppo specifico il riferimento: “Maggot Brain” dei Funkadelic di George Clinton. Tutto il concept dell’album, tutti i suoni, l’impianto estetico e le ispirazioni liriche sono lì, un calco fedele e aggiornato il giusto. Abbracciare così apertamente quell’universo gli ha permesso di esprimere un nuovo lato della sua personalità. Ha definitivamente abbandonato gli abiti del “blerd”, neologismo che indica i “black nerd” – concetto da lui stesso scolpito profondamente durante i primi anni duemila. Si è buttato a capofitto nella mitologia P-Funk costruita da George Clinton con i suoi Parliament/Funkadelic, fatta di sensualità, magnetismo, ambiguità elettrica. Insomma dopo essere emerso musicalmente e tematicamente come l’antitesi dello stereotipo del maschio afroamericano, in qualche modo ci si è sottilmente riallineato. Prendendo però ispirazione da un modello più vintage rispetto a quello dei tanto criticati (da lui stesso ai tempi di “Camp” e “Because the Internet”) colleghi rapper. Spogliandolo ulteriormente degli elementi machisti più prominenti, trasformandosi in una specie di caricatura del genere, di meme appunto.
Un’operazione senza dubbio furba. In un colpo solo ha permesso al ragazzo cresciuto in un tranquillo quartiere residenziale di una piccola cittadina della Georgia, di scrollarsi di dosso i panni dell’inoffensivo ma polemico alt-boy e di riallinearsi quel tanto che basta alla comunità afroamericana per storia, tematiche, atteggiamenti. Fabbricandosi di conseguenza una nuova strada quasi vergine, completamente da scrivere e libera da aspettative di qualunque tipo. Nel momento in cui tutti si aspettavano un seguito al fortunato e ben riuscito “Because The Internet”, Gambino ha mischiato le carte, disattendendo clamorosamente le aspettative, costruendone di nuove senza che noi sapessimo esattamente su quali fissarci. In questo senso la ristrutturazione teorica di Gambino/Glover in “Awaken, My Love!” è stata ciò che gli ha permesso di avere la libertà e l’autorità necessaria a firmare uno dei pezzi più duri e iconici degli ultimi anni, “This is America”; o la credibilità per intraprendere un progetto bizzarro come il film “Guava Island”; per arrivare a quell’album barocco e senza forma che è l’ultimo “3.15.20”. Insomma la prima grande eredità di “Awaken, My Love!” è stata quella di aver consegnato al mondo un nuovo Donald Glover, più complesso e consapevole- anche più paraculo, per usare il tanto vituperato romanesco. Di abituare ulteriormente il suo pubblico a una traiettoria che è sempre stata polimorfa, ma che dal 2016 in poi (complice il debutto quasi contemporaneo della straordinaria “Atlanta”) è diventata realmente imprevedibile e lo ha portato a nuovi livelli qualitativi e quantitativi.
A dispetto di un impianto che, come detto, fa riferimento in tutto e per tutto a un modello preciso e non si discosta granché da questo, l’eredità del disco è anche musicale. Siamo lontanissimi ovviamente dall’impatto originario della rivoluzione sonora e teorica di George Clinton, tutta proiettata e invischiata in un folle, accattivante, alieno afrofuturismo psichedelico. Il disco però ha fatto parte di un anno magico per la musica afroamericana. Se “Awaken, My Love!” ha visto la luce i primi giorni di dicembre 2016, ad aprile è era uscito il fenomeno “Lemonade” di Beyoncé, a maggio “Coloring Book” dell’amico Chance the Rapper e “99.9%” di KAYTRANADA, a luglio “Telefone” di Noname, ad agosto “Blonde” di Frank Ocean, a settembre “A Seat at the Table” di Solange, a gennaio “Malibu” di Anderson .Paak. Gambino si è inserito in questo annus mirabilis a modo suo. Ha condiviso con la maggior parte e più degli altri un nuovo gusto per le strumentazioni analogiche, un ritorno ad un feeling funk, soul e jazzy molto marcato e che tutt’oggi continua a fare scuola e ha formato il gusto di chissà quante decina di migliaia di giovani musicisti e produttori in giro per il mondo. Per dire, in Italia solo nell’ultimo periodo sembra che la lezione stia facendo presa in modo convincente, grazie ad una nuova ondata di giovanissimi artisti più o meno R&B, più o meno Jazz-Hop.
Il fare riferimento con spudoratezza ad un modello iconico e facilmente identificabile, ha anche anticipato quel gusto retromaniaco (per dirla con Simon Reynolds) che ormai vive un’esplosione veramente sfacciata all’interno dei grandi progetti pop e non solo. Basta guardare al cosplay anni ’70/’80 dei Silk Sonic di Anderson .Paak e Bruno Mars, ai suoni delle più recenti produzioni di Thundercat e Terrace Martin, agli ultimi patinati album di The Weekend, o Post Malone con i suoi riferimenti anni novanta, fino ai progetti più smaccatamente pop ed esplicitamente retrò di Harry Styles e Dua Lipa – “Future Nostalgia” è forse un ottimo titolo manifesto che racchiude bene tutti. Recentemente siamo perfino arrivati alla storicizzazione di un fenomeno come il pop-punk, reinserito a forza come patetico steroide artificiale, nel tentativo di salvare il salvabile nelle agonizzanti carriere dei trapper di mezzo mondo. In fin dei conti si tratta di musica concepita come colonna sonora per reel e/o tiktok, che si consacra discograficamente solo quando entra in tendenza in queste piattaforme, riutilizzata, risignificata, spolpata viva ad ogni utilizzo in video da un minuto, concepita direttamente per funzionare in questi termini dal punto di vista di grammatica musicale. In questo “Redbone” è stato, a sorpresa, un singolo anticipatore. È diventato immediatamente un meme vivente, remixato e reinterpretato in tutte le salse: versione rallentata, versione accelerata, versione mixata con brani e generi a caso e così via.
Nostalgia del futuro per davvero insomma. Nel senso che sembra che la spugna sia stata gettata e che del futuro in termini di innovazione musicale non importi quasi più a nessuno, sicuramente non al mercato. Quella nostalgia infatti funziona benissimo dal punto di vista economico. In questo è stato involontario precursore (involontario perché dichiaratamente concepito come omaggio) lo stesso “Awaken, My Love!”, che ha eliminato completamente il futuro da un genere che originariamente ne era intriso fino al midollo, componendo una specie di polaroid del passato, piacevolissima ma inoffensiva. Anticipatore anche perché secondo The Ringer la mania per la nostalgia (rima voluta) nel campo dell’intrattenimento è esplosa un anno dopo, tra serie tv, film, sneakers, videogiochi e tanto altro. Spiega anche perché il ritorno sulla lunga distanza di Childish Gambino sia stato “3.15.20”: un album complesso, lungo, questa volta pieno zeppo di spunti e suoni contemporanei e per certi versi futuribili. Ancora una volta a disilludere con successo le aspettative, a riappropriarsi della propria narrazione, seguendo il proprio flusso creativo.
Insomma, auguri “Awaken, My Love!”. Cartolina da un futuro passato mai esistito, manifesto di indipendenza artistica e allo stesso tempo di grande capacità di anticipare/interpretare il proprio tempo e i topoi della propria identità culturale e sociale. Auguri Donald/Childish, quando vuoi siamo nuovamente pronti a vedere meravigliosamente rimescolate e infrante le nostre aspettative.