Non era facile, ancor meno scontato, che da un momento così pesante nascesse un disco così leggero.
Gommapiuma, l’ultimo disco di Giorgio Poi, viene da un momento disgraziato un po’ per tutti, eppure custodisce una grazia inattesa e disarmante.
Quella che è stata una quotidianità dura, spigolosa, si appoggia su queste otto tracce morbide, trovando immediato sollievo e un modo inaspettato di raccontarsi: attutite da immagini delicate e poetiche, la vita e le sensazioni scure di quei giorni si sciolgono e riescono addirittura ad apparire luminose.
Questa è una di quelle magie che solo Giorgio Poi sa fare: ci dice come stanno le cose, senza stravolgere la realtà, anche quando è brutta. Ma il suo modo di raccontarcela è così accogliente che finisce per abbracciarci, evitandoci di andare in frantumi.
In questo disco ci abbracciano non solo le sue parole ma anche gli ariosi arrangiamenti orchestrali, le melodie ancora più svolazzanti, i suoni così sospesi e analgesici. Ogni traccia allevia un dolore, è un cerotto su una ferita, è quell'”andrà tutto bene” così abusato che invece qui ti sembra di averlo sentito per la prima volta.
Gommapiuma è il sogno che ci meritiamo, dopo tutto quanto.
Per questo grazie mille Giorgio Poi: per la bellezza, la poesia, gli abbracci, le boccate d’ossigeno. Perché è anche grazie a questo disco che possiamo ricominciare a sognare.
Quella che segue è una chiacchierata morbida con l’artista, intervallata da qualche estratto del soft live di presentazione del disco, all’interno di un negozio di gommapiuma a Milano.
Due anni di silenzio discografico e poi Gommapiuma. Come ci sei arrivato? È stato un atterraggio morbido?
È stato un atterraggio morbido ma un decollo turbolento. E anche un volo turbolento, nel senso che non è stato facilissimo lavorare a questo disco: è nato durante il lockdown e si è chiuso con la ripartenza di quest’estate. Quindi è stato un disco che ha dovuto fare i conti con questa cosa, senza avere il mondo a disposizione da consultare per scrivere delle canzoni.
E immagino anche senza sentire troppo il peso di quello che stavamo vivendo: nonostante sia nato in quel periodo, non è un disco pesante e deprimente, anzi.
Non è un disco disperato, secondo me. È un disco ottimista, abbastanza luminoso, credo. Però sì: diciamo che la funzione di questi pezzi è stata proprio quella di distrarmi da quello che succedeva intorno e quindi di creare per me dei piccoli problemi quotidiani da risolvere, degli enigmi riguardanti la realizzazione, la stesura, la scrittura dei brani, la scelta dei suoni, delle parole, delle melodie. Quindi, diciamo che è stata un’ancora di salvezza per me.
Gommapiuma, la title track del disco, si trova esattamente a metà ed è una strumentale. C’è un motivo preciso dietro questa scelta?
Allora a me piace di solito far sì che la traccia strumentale dia il titolo al disco, perché mi piace poter legare al disco un concetto che possa tenere insieme tutte le canzoni. Quindi non rifarmi magari al titolo di una canzone che abbia un suo significato concluso all’interno di quella canzone ma poter dare un’idea più vasta al disco. Per questo mi piace legarla alla traccia strumentale. Quanto al fatto che si trova al centro è perché mi piace spezzare e dare un’alternanza, altrimenti ci sarebbe soltanto la mia voce e sarebbe difficile da seguire.
La tua è una scrittura materica fatta di immagini concrete, vivide, che quasi le puoi toccare. Di contro, in questo disco più che nei precedenti, il suono è qualcosa di sospeso e quasi immateriale. Qual è il processo creativo di Giorgio Poi? Cosa viene prima: l’immagine, il testo o la musica?
Fino a adesso viene sempre prima la musica. Il testo lo lascio sempre in ultimo, poi però non è detto che scriva il testo e non vada poi a modificare qualcosa dell’arrangiamento o qualcosa della musica. Però sì, diciamo che c’è una fase musica e una fase testo che, per me, è successiva.
Mi collego alla domanda precedente perché ho trovato questo nuovo lavoro appunto più sospeso e dilatato. Ed è forse merito di una buona dose di orchestrazione, no? Ci sono degli ascolti che lo hanno influenzato in maniera particolare che vanno in questa direzione?
Sul fatto che ci sia il pianoforte effettivamente io ho ascoltato molta musica per pianoforte. Ho ascoltato molto Bill Evans, Debussy e probabilmente la presenza del piano è dovuta a questo tipo di ascolti. Inoltre il pianoforte mi calma molto, mi dà molta tranquillità e in quel periodo ero in cerca di tranquillità, avevo voglia di scrivere cose che mi cullassero in un certo senso, almeno musicalmente. Il quartetto è venuto fuori perché mi piaceva l’idea che invece di mettere un pad o una tastiera per far crescere emotivamente il pezzo, ci fosse più movimento e quindi che fosse sì un blocco, ma che all’interno avesse una sua vita indipendente anche rispetto all’arrangiamento. E il quartetto è un’entità organica costituita dai 4 strumenti e dalle sue melodie che ognuno di quei 4 strumenti descrive.
E a proposito di pezzi che crescono, in qualche modo, mi viene in mente Bloody Mary che è un brano molto cinematico che si presta secondo me benissimo a fare da colonna sonora a un film. Tu hai già scritto per serie tv. Cosa ti ha insegnato farlo? Ti piacerebbe scrivere per il cinema e per chi più di tutti?
Sì mi piacerebbe moltissimo scrivere ancora una colonna sonora, soprattutto per un film. È una cosa che mi interessa ed è talmente diversa dallo scrivere canzoni che è come se fosse un’altra faccia della stessa medaglia. Non c’è tutto l’aspetto del testo, non c’è l’aspetto vocale ma c’è solo la musica. E quella è una cosa che a me piace moltissimo. Come registi mi piacerebbe lavorare con Garrone.
Tra l’altro Bloody Mary, è l’unico brano ad avere un’ospite: Elisa. Com’è nata la vostra collaborazione.
Con Elisa ci eravamo iniziati a sentire un paio di anni fa e avevamo organizzato di incontrarci per scrivere qualcosa insieme, solo che avevamo fissato un incontro per marzo 2020 ma, le cose sono andate come sono andate, e non siamo riusciti più a vederci. Nel frattempo io stavo iniziando già a scrivere qualcosa per il disco e il pezzo che mi è venuto fuori era già qualche cosa che nasceva da questo contatto che avevo avuto con Elisa. Immaginavo che questa canzone potesse cantarla lei da sola o solo io nel caso in cui a lei non fosse piaciuta, o che avremmo potuto cantarla insieme. E alla fine abbiamo deciso per questa terza via.
Barzellette è il pezzo più triste di Gommapiuma. Eppure si intitola Barzellette. Come me la spieghi?
Perché è un invito al riso, anche quando sembra che non ci sia molto da ridere. Una proposta di soluzione per attraversare le difficoltà, un ponte per superare un mare in tempesta. Mi piaceva l’idea delle barzellette anche perché sono una cosa un po’ vecchia…
… Un po’ anni ’80
E infatti sì, a me le barzellette me le racconta solo mio padre però alla fine mi fanno sempre ridere!
Veniamo alla fine del disco che è una boccata d’ossigeno servita a chi vive in apnea. È stato così anche per te? Questo brano e, più in generale, l’intero disco, sono stati per te un momento di respiro?
Assolutamente sì perché ha alleviato un periodo che sarebbe stato altrimenti più duro. Proprio perché, come ti dicevo prima, ha creato dei piccolissimi problemi quotidiani che io mi ero dato il compito di risolvere, degli ostacoli sulla mia quotidianità.
E l’abbiamo superata?
Direi di sì, sono sopravvissuto, con una mente più o meno intatta.