Tra le certezze della nostra vita messe in discussione dagli eventi di questo pazzo 2021, una delle principali è sicuramente la presunta innocuità della cultura dell’hype.
Con l’amplificazione mediatica dell’era social, tutti almeno una volta nella vita ci siamo sentiti così vicini ai nostri artisti del cuore da pensare di poterli toccare, essere loro amici, essere notati e quasi “diventare” un* di loro. Ogni giorno abbiamo la possibilità di assaporare tutti i dettagli della loro vita quotidiana: sappiamo cosa mangiano, quali posti frequentano, ma soprattutto cosa indossano.
Nel relativo rispetto dei tempi in cui la urban culture era ancora totalmente democratica, ad oggi personaggi come Virgil Abloh sono riusciti a sgomitare nel mondo del luxury fino a elevarla a linguaggio universale di valore, e a portarla a un livello di inaccessibilità che fa battere i cuori di alcuni e lacrimare gli occhi di altri.
Paradossalmente, proprio l’inaccessibilità del merch è il La che ha dato adito ai primi disordini del 5 novembre scorso all’NRG Park di Houston, in occasione dell’ormai tristemente celebre Astroworld Festival di Travis Scott. Ai microfoni di Complex, infatti, alcuni resellers tra i 18 e i 20 anni hanno fatto luce su quanto valore possa acquisire del tour merch unico come quello di Cactus Jack. Si tratta di pezzi non disponibili sullo shop online, acquistabili solo negli stand fisici, e la gente è disposta a qualunque cosa pur di accaparrarseli, perché vanno in resell al quadruplo del prezzo.
Questa ragione, che giustifica in parte la psicosi, è seconda solo alla capacità di traino di un personaggio come Travis Scott, determinata, forse più che dalla musica, dalle migliaia di collabs portate avanti negli ultimi anni con i brand più disparati, da Nike a McDonald’s, passando per un virtual concert su Fortnite e finendo su una scatola di cereali per Reese Puff’s.
Ma davvero possiamo pensare a un mondo in cui i musicisti non siano personaggi? Davvero possiamo discernere la performance dal glow dell’artista? Di certo non può esistere Pharrell senza Billionaire Boys Club, Tyler senza GOLF, o Kanye senza Yeezy. La risposta dunque è semplice: forse non è questo il problema.
Se pensiamo alle cose che hanno creato più hype nel 2021, non possiamo non mettere sul podio l’uscita di Donda, ultima fatica di Kanye West, che ha dimostrato come un’attesa prolungata e protratta fino ai limiti più estremi della pazienza umana possa diventare un ostacolo, sia per un apprezzamento sincero del prodotto finale, sia per una gestione razionale del fandom. Tra fine luglio e inizio agosto, infatti, tra le cose più disparate, qualcuno ha cominciato a vendere online “pacchetti di aria dal listening party di Donda” per circa 3.000$. Che qualcuno l’abbia comprata o meno, la situazione resta piuttosto surreale.
History repeats itself. pic.twitter.com/LhDgrghSRo
— Photos Of Ye (@PhotosOfKanye) July 23, 2021
Seppur su livelli di popolarità diversi e a tratti incomparabili, un’alternativa apprezzabile è rappresentata da Jorja Smith, che con Be Right Back ha messo un checkpoint allo iato tra un disco e l’altro, riconoscendo ai fan il diritto di non accumulare troppa astinenza. ““It’s called Be Right Back because it’s just something I want my fans to have right now. […] If I needed to make these songs, then someone needed to hear them too”, ha detto a ridosso dell’uscita dell’EP.
Non ci aspettiamo di certo lo stesso trattamento da artisti del calibro di Kendrick Lamar, che ci tiene appesi al filo da più di 4 anni nell’attesa di un’opera completa all’altezza di Damn. Sappiamo che le cose belle sono lente, ma quando l’attesa del piacere diventa estenuante c’è il pericolo che le aspettative si gonfino e che il prodotto finale, al netto della qualità oggettiva, non sia all’altezza di ciò che ci aspettavamo. O, viceversa e più plausibilmente, può succedere che una volta avuto ciò per cui abbiamo tanto pregato, non siamo più in grado di giudicarne la bontà, e che ci sembri tutto stupendo solo perché porta la firma del nostro artista preferito.
La riflessione resta incompleta e sarebbe ancora lunga, ma una cosa resta importante: che ci piaccia o no, l’hype è la linfa che alimenta qualsiasi pratica artistica, in ogni campo e in ogni luogo del mondo. In questo senso, per l’ambito musicale il 2021 è stato un anno particolarmente significativo, che ha dato degli spunti per riflettere su un cambiamento nella gestione di alcune dinamiche che, se sottovalutate, possono mettere a repentaglio la buona riuscita di piccoli e grandi progetti.
Speriamo solo che con il nuovo anno gli artisti portino con sé un po’ di onestà intellettuale, quanto basta per farci credere ancora che aspettare per avere qualcosa che desideriamo con tutto il cuore valga veramente la pena.