Una domanda provocatoria, necessaria, superflua, divertente, odiosa, innocua, inutile?
Forse tutto quanto insieme. Sicuramente uno spunto di riflessione, che può sfociare nell’esercizio retorico, ma da cui si possono trarre temi da approfondire o su cui litigare. Soprattutto alla luce dei processi in atto negli ultimi anni e dell’uso smodato del neologismo “jazz” e delle sue varie storpiature e rielaborazioni (jazzy, urgh) anche in ambiti veramente lontani dal contesto e dalla musica che la parola è nata per definire.
Si potrebbe iniziare proprio da qui, da questa distinzione.
Muoversi in due direzioni che si sovrappongono: quella linguistica/comunicativa e quella più strettamente musicale.
Cosa significa quando una parola è risignificata continuamente, quando viene usata come una sorta di jolly linguistico utile a descrivere qualcosa di difficilmente inquadrabile? È quello che è successo con “jazz”. Lo troviamo nella descrizione della sensibilità di artisti pop che magari hanno studi di un certo tipo alle spalle; lo troviamo a grandi caratteri nelle rassegne più conservatrici del genere; sulle locandine di ristoranti che vogliono darsi un tono ma anche su quelle dei grandi festival di musica elettronica. È associato all’hip-hop, al cantautorato, all’indie, all’elettronica, prima o poi finisce per essere accostato a quasi tutti i generi – a ragione o meno.
Capita anche che “jazz” venga aggettivato, in modo che si può finire per attribuire veramente a qualunque cosa ci venga in mente: sport, cinema, situazioni di vita. Se una parola viene utilizzata in questo modo le motivazioni possono essere due: il significato è talmente malleabile e/o fraintendibile da poter essere usato senza comprometterlo o suscitare scandalo nelle situazioni più disparate – pur nell’evenienza che non se ne conosca il vero senso. Che questa venga caricata di significati diversi a seconda dei riceventi, rimanendo comunque bene o male valida. Oppure il termine si è archetipizzato, è diventato pop, si è inserito nella cultura dominante in un modo tale che a prescindere da contesto, comunicante e ricevente, è portatore di un significato che viene comunque riconosciuto in modo comune dalla maggior parte delle persone.
Per “jazz” sembrano essere veri entrambi gli assunti, pronti a mescolarsi continuamente senza soluzione di continuità. La parola è sicuramente diventata un bagaglio di topoi “letterari” che per la stragrande maggioranza delle persone precedono quelli musicali. Se diciamo jazz pensiamo all’improvvisazione, alla creatività, alla cultura nera (e bianca) americana, ai piccoli club fumosi, agli strumenti a fiato. Anche ad un vero e proprio stile di vita e, in modo vago, ad una musica che sembra così liquida da poter assumere tutte le forme cui vogliamo costringerla. Ci sono anche delle connotazioni negative, mutate radicalmente nel tempo. Per buona parte della sua storia infatti, gli stereotipi negativi del jazz erano identificati per lo più con tratti razziali e con stili di vita ai margini – droghe, promiscuità, una rappresentazione per la prima volta pop e affascinante di classi sociali sistematicamente oppresse e per definizione “minacciose” per lo status quo. Oggi, con l’appropriazione bianca del genere già a partire dalla seconda metà del secolo scorso, c’è stato un ribaltamento quasi a centottanta gradi. Se si pensa al jazz in senso negativo, la mente finisce per approdare alla complessità fine a sé stessa, alla masturbazione intellettuale, all’accademia, all’inaccessibilità ricercata e volutamente sfoggiata come medaglia.
Cercare di riportare ad una sola unità le mille sfaccettature assunte nel tempo dalla parola “jazz” diventerebbe un esercizio quasi impossibile e, francamente, inutile. Ma perché rimane un argomento comunque importante e interessante?
Perché l’ambiguità linguistica della parola, la sua porosità e adattabilità, finisce per riflettere l’ambiguità musicale del genere.
La difficoltà di codificare questa musica, per trovare il modo giusto per rifletterci e parlarne in modo non vago. È un problema che si pose nel 1959 anche lo storico più importante del ‘900, Eric Hobsbawm, nello scrivere l’enciclopedico (per l’epoca) “Storia sociale del jazz”. Il primo capitolo del tomo si intitola “Come si riconosce il jazz” e affronta la questione nel modo più pragmatico possibile, stilando una lista di cinque corposi punti che cercano di sintetizzare le caratteristiche principali del genere.
Li rielaboro brevemente. Il jazz:
1) usa soprattutto scale derivate dalla musica Africana occidentale o dalla combinazione di queste con la tradizione europea
2) si poggia saldamente su un altro elemento di fondamentale importanza per la musica africana – il ritmo – stratificato e complesso
3) dispone di colori strumentali propri: le voci non hanno educazione “classica” e gli strumenti si suonano come voci
4) possiede un repertorio e forme musicali proprie, originali, come blues e ballad
5) è la musica di chi la esegue. Tutto è subordinato alla personalità dei singoli musicisti.
L’elemento di maggiore interesse è il grado di approssimazione a cui è costretto uno studioso rigoroso come Hobsbawm. Tutti i punti da lui stilati contengono sicuramente affermazioni condivisibili, ma risultano anche facilmente smontabili e sovrapponibili ad altre influenze, quando non sono vere e proprie antitesi. È da tenere a mente inoltre che lo storico britannico scrive in un momento storico in cui il jazz è ancora nel pieno delle sue innumerevoli evoluzioni, a neanche metà della sua storia. Hobsbawm scrive alla fine della rivoluzione be-bop, prima dell’hard bop, del jazz modale, del free jazz, della rivoluzione elettrica, del jazz-hop, delle forme ibride; prima dell’esplicito incontro con altri generi e con altre culture, con il movimento per i diritti civili non ancora storicizzabile e quindi non preso in considerazione per l’incredibile influenza esercitata sulla musica. Insomma, nonostante Hobsbawm non debba tenere conto della parte più caotica e densa di avvenimenti della storia del jazz, ha comunque difficoltà a definirne la forma. È così in difficoltà che alla fine il quinto punto, il più vago, è quello in cui implodono tutte le sue riflessioni:
il jazz è la musica di chi la esegue. Questa è l’affermazione in cui ancora oggi convergono un po’ tutte le definizioni di jazz, soprattutto quelle date da chi non è un musicista.
Perché anche questo punto è importante: se non si è musicisti o non si è studiata musica in un certo modo, non si ha la grammatica necessaria a parlare delle forme musicali del jazz in senso tecnico e specifico. Il che è oggettivamente un handicap da tenere in considerazione quando si affrontano discorsi di questo tipo.
Perché certo, da ascoltatori se assistiamo ad un concerto acustico di un quartetto che interpreta degli standard della tradizione non saremo troppo in difficoltà a definirlo, con convinzione, jazz. Ma se ci troviamo davanti a un duo theremin e tromba, o a un sassofonista che si accompagna solo con un sintetizzatore e un rapper, quello come lo definiamo? Kamaal Williams, uno dei protagonisti più in vista della chiacchierata scena jazz londinese, è stato come suo solito lapidario: “Per me, il jazz è stato qualcosa che è successo molto presto nel ventesimo secolo, o fino alla fine degli anni ’60. Quello che mi sembra essere il fondamento di ogni musicista jazz è la capacità di evolversi: sono passati al funk, al soul, alla fusion. Basta osservare musicisti come Davis e Hancock negli anni ‘70. Sono cambiati, perché non si trattava più di jazz, si trattava di prendere ciò che avevano avuto da quell’epoca e di dire: ‘Bene, in che periodo siamo adesso? Abbiamo una strumentazione nuova: pianoforti elettrici, sintetizzatori, musica rock, punk’. Si è evoluto. A quarant’anni da quell’evoluzione, come possiamo chiamarlo ancora jazz?”.
La scena jazz inglese esplosa nel 2018 (con la compilation “We Out Here”) ha sicuramente preso alla lettera questo tipo di approccio. Ma anche quella losangelina “esplosa” nel 2015, per altro non a caso con un album hip-hop,“To Pimp A Butterfly” di Kendrick Lamar – a dimostrare ancora di più una nuova impenitenza nel muoversi tra generi. Queste due scene in un certo senso sono state le pietre dello scandalo del jazz degli ultimi anni. Hanno fatto proseliti in tutto il mondo, grazie a musicisti dalle rigorose carriere “accademiche” ma cresciuti anche a suon di pane e hip-hop, pane e musica elettronica. Negando e rivendicando contemporaneamente il concetto e la parola jazz, l’hanno plasmata a proprio piacimento e hanno finito per permettere a una nuova generazione di ascoltatori e musicisti (non per forza di formazione jazz) di identificarcisi – con malcelato disappunto del mondo dell’accademia e dei cultori “storici” del genere.
Un grande dimenticato della storia del jazz, il batterista ghanese Guy Warren (poi conosciuto come Ghanaba), in realtà porta delle testimonianze di conflitto simili ma più datate e, forse proprio per questo, ancor più esplicative. Intervistato da Steven Feld per quell’opera mastodontica che è “Jazz cosmopolita ad Accra”, descrive la sua esperienza da outsider, da musicista africano arrivato negli Stati Uniti per confrontarsi con la tradizione jazz. “Sono razzisti. Perché secondo loro noi [musicisti africani] eravamo delle versioni incompiute di loro stessi. Pensavano che il jazz fosse migliore di noi, più sofisticato, che noi fossimo fermi su un gradino più basso della scala evolutiva. Che con il jazz del passato, noi ci avevamo a che fare solo per i tamburi eccetera, roba del tempo degli schiavi, chiaro? Ecco queste sono cazzate, e sono cazzate razziste.” E ancora: “Jazz, jazz, jazz. Sempre con quelle loro cazzate sul jazz americano. Per questo di me non sapevano che cosa farsene, hai capito, e dicevano che ero fuori posto. Perché non ero dentro quella cazzata del jazz AMERICANO”.
Queste cose le diceva un musicista jazz non americano negli anni Cinquanta. Certo, c’è un contesto storico, razziale e sociale molto specifico di cui tenere conto, ma con le dovute proporzioni quello evidenziato da Ghanaba è un problema generale. Riferendoci all’Italia, la cricca del jazz che ti guarda dall’alto in basso ed è chiusa, elitaria e anche un po’ ottusa è un argomento presente nelle conversazioni a “microfoni spenti” che ho avuto negli ultimi anni con innumerevoli jazzisti giovani e meno giovani. Persone e musicisti eccezionali, che spesso ancora oggi sono titubanti nell’ammettere di ascoltare hip-hop o musica elettronica, titubanti nello sponsorizzare concerti che non siano quelli con un trio in un jazz club di vecchia data o in un festival jazz di quelli “approvati” dalla comunità. E attenzione: questi discorsi sono anche e soprattutto pratici, non parliamo solo di diatribe dialettiche da salotti borghesi. Parliamo di soldi, di opportunità lavorative, di raccomandazioni, di reputazione artistica. Guarda caso, infatti, spesso queste sono le situazioni in cui il jazz, in nome della “conservazione”, viene privato del suo contorno sociale e razziale, della sua storia diasporica, delle sue controversie politiche – e in cui progetti con tematiche musicali e non di un certo tipo vengono esclusi dalla programmazione. Il festival Jazz:Re:Found, che dalla nascita invece si diverte a sfidare questo tipo di approccio, ha addirittura iniziato ad usare ironicamente come proprio claim la frase più sentita in queste occasioni: “eh ma non è jazz!”
Questo sentimento di ostilità costante però non è cosa nuova. È esattamente ciò a cui è andato incontro il genere ad ogni sua evoluzione. Il jazz di New Orleans era musica da popolani ignoranti, Charlie Parker e il suo be-bop vennero odiati e bollati come musica da selvaggi, il free-jazz come anti musica, la libera fluidità di Miles Davis è sempre stata guardata con sospetto, da contemporanei e storici. Il jazz è un organismo vivente dall’inizio della sua storia e il conflitto interno sembra essere una delle componenti fondamentali della sua non-identità. Non a caso nasce da un popolo, quello afroamericano, che ha il leitmotiv della propria esistenza nella frammentazione della sua identità (nella sua “doppia coscienza” per citare W.E.B. Du Bois), nel suo stare dentro e fuori contemporaneamente. Un conflitto che, per reazione o distruzione, fa progredire la musica e i suoi interpreti, costringendoli anche con la forza ad abbandonare le zone di comfort e le certezze per confrontarsi sempre con l’altro, sia in termini umani che musicali. E che, in questa sua fase storica, contrappone anche chi vuole usare delle forme musicali per proteggere dei privilegi e chi invece vuole usarle per far progredire il discorso. In questo senso, quindi, il jazz è la forma musicale più umana che esista, fatta in egual parti di matematica e di irrazionalità, di genio e di rigorosa disciplina, di certezze empiriche e di incertezze teoriche, di conflitto e di armonia.
Quindi sì, jazz è una parola obsoleta e no, jazz non è una parola obsoleta.
Obsoleto e orrendo è nascondersi dietro una definizione, che per sua natura è una non-definizione fluida, per salvaguardare e congelare interessi materiali e non artistici – inchiodando il discorso musicale e la sua evoluzione, mettendogli i bastoni fra le ruote appositamente. Non è obsoleto invece cercare con uno sforzo non da poco di considerare tutti gli innumerevoli significati che racchiude la parola, cercare di seguire linee musicali, sociali e storiche, e considerarle senza eccessiva reverenza: ma con il giusto peso e rispetto. Su cosa è jazz spesso non si sono mai messi d’accordo neanche i jazzisti stessi, ognuno però più o meno sicuro di esserlo. E tutto questo magma linguistico, musicale, questi intrecci irrisolti e spesso irrisolvibili che alimentano è forse quello che dobbiamo prenderci. La capacità di non definirsi, pur essendo sicuri delle proprie origini e dei propri punti di forza, andando avanti e confrontandosi con rispetto e curiosità con tutto ciò che ci si presenta.
Facciamone un mantra per il 2022.