Siamo a gennaio, il nuovo millennio è appena entrato e già da qualche anno il mondo ha steso il tappeto rosso all’R&B come genere imperante di tutte le classifiche. Sulla passerella del successo popolare sfilano e sfileranno artisti come Destiny’s Child, Usher, NeYo, Maxwell, Bilal e tanti altri che del Rhythm n’ Blues hanno fatto un genere miracolosamente commerciale.
Su quello stesso tappeto, già agli albori del 1995, aveva sfilato anche Michael Archer, in arte D’Angelo, con il suo Brown Sugar, interamente scritto e inciso a casa della madre a Richmond, in Virginia.
Eppure 22 anni fa, il 25 gennaio 2000, al momento di massimo picco del genere R&B, D’Angelo decide che quello non è il suo posto.
Sebbene molti abbiano lamentato uno iato esagerato tra il primo e il secondo disco di D’Angelo, pochi sanno che le primissime sessions che avrebbero portato al disco erano già in corso nel 1996. Alla domanda “Perché è servito tutto questo tempo?” sia Questlove, padre putativo del progetto, che il portentoso sound engineer Russell Elevado, rispondono con un’immagine: D’Angelo e Questlove che ogni mattina arrivano in studio con pacchi di dischi, vhs e audiocassette e passano le ore a studiare quelli che lo stesso D’Angelo, grandissimo appassionato di Star Wars, chiamava “the Yodas”: Prince, George Clinton, Fela Kuti, Michael Jackson e altri condottieri della storia del soul. No droga, no alchool, no sigarette: solo ore e ore di video e registrazioni.
L’obiettivo? Tornare alle origini. Distruggere la patina commerciale del nuovo R&B. Toccare il suono con le mani e andare fino a Cuba, dove D’Angelo ha realmente preso parte a un rito Voodoo, come testimoniato dal servizio fotografico allegato al booklet del disco.
Come raccontato da Elevado, le registrazioni avvenivano esclusivamente in analogico da live sessions, per ottenere quel feeling pastoso tipico dell’identità sonora del soul anni ’70. Dal canto suo, Questlove impiegherà ben tre anni a disimparare tutto ciò che sapeva della batteria. Perchè sarà proprio D’Angelo, così come J Dilla che in quel periodo frequentava gli studios per lavorare a Like Water for Chocolate di Common, ad insegnare al batterista dei The Roots a “suonare come un bambino di 5 anni”, “come un ubriaco”, praticamente fuori dal beat, per ottenere un suono più imperfetto possibile, più fuori tempo possibile. Così fuori tempo che Lenny Kravitz si rifiuterà di suonare la chitarra su uno dei pezzi lamentandosi: “Non riesco, è tutto fuori tempo!”.
Voodoo rappresenta un momento di grandi cambiamenti per D’Angelo. È il momento in cui si lascia alle spalle il successo commerciale di Brown Sugar e il blocco dello scrittore che lo aveva portato a cadere in un grande sconforto e a tornare sovrappeso com’era stato da bambino. Questo non è un punto trascurabile nella storia di Voodoo e di D’Angelo come artista, perché sarà proprio la scelta di assoldare un personal trainer, tornare in perfetta forma e girare il video di Untitled (How Does It Feel) a generare gli effetti commerciali inizialmente sperati, ma che porteranno Michael Archer a sparire dalle scene per altri 15 anni. Le conseguenze del videoclip diventano incontrollabili, le molestie verbali ai concerti sono all’ordine del giorno, e dalle polemiche non viene risparmiata neanche Angie Stone, allora compagna di D’Angelo, considerata fuori dai canoni di bellezza che uno come lui avrebbe dovuto avere nella scelta di una partner. Il sex symbol sovrasta il musicista e, dopo cinque anni di travaglio per mettere alla luce Voodoo, D’Angelo non regge.
Eppure, passata la bufera del machismo intorno a D’Angelo, resta il fatto che “il mondo ha ancora bisogno di quella voce“, come affermato da Erykah Badu in un’intervista a Red Bull.
“Ho paura man, e se la gente pensa che non so suonare?” diceva Questlove a D’Angelo nei momenti di sconforto. “Use the force!”, lo incitava D’Angelo sempre riferendosi alla sua saga preferita. E se siamo qui dopo 22 anni a celebrare la nascita di un genere, è per merito di quella forza, così come dei Soulquarians, di Russell Elevado, Pino Palladino, Roy Hargrove, DJ Premier e di tutti coloro che, prendendo parte a Voodoo, hanno avuto il coraggio di onorare le loro radici, battendo una strada alternativa e dimostrando che in fin dei conti era l’unica giusta.