C’è qualcosa nella voce di Saba che va verso l’esterno.
In “Few Good Things”, il suo terzo album in studio, tutta la carica introspettiva del suo flow è ancora lì, ma il ventisettenne di Chicago sembra essere riuscito ad aprire la porta della sua camera. Non si limita più ad invitare gli ascoltatori al suo interno, a farci sedere sul letto mentre mette play alle sue tracce; adesso è lui ad uscire, a fare un giro insieme a noi e raccontarsi con una sicurezza e lucidità nuove.
“Woke up today, said, “I’m gettin’ it right”/Been up some days and I been up some nights/I got the plan and I didn’t look twice/All for the simplest life/I put the pain in this shit, did it right/Can’t get frustrated, gotta give it some time ”.
Il ritornello di “a Simpler Time”, ottavo brano dell’album con il featuring di Mereba, è un manifesto di questa nuova attitudine. Della capacità di accettare il bello e il brutto della vita, di saper essere paziente e sincero nella produzione della propria arte – di saper esorcizzare in modo positivo il dolore.
L’elaborazione del lutto sembra essere ancora lo strumento critico usato di più per parlare della sua musica. “CARE FOR ME” del 2018 era un album cupo, che faceva i conti con l’assassinio del cugino John Walt, compagno e membro fondatore del collettivo Pivot Gang. Saba continua a fare i conti con la depressione e il sentimento di perdita anche nella nuova uscita, ma ridurre la capacità narrativa delle sue liriche solo a questo vorrebbe dire non rendergli giustizia. Il rapper di Chicago esibisce una grande crescita e lucidità, ad esempio riuscendo a identificare e chiamare le cose con il loro nome, come in “Survivor’s Guilt” con G Herbo. La colpa del sopravvissuto appunto, analizzata emotivamente ma anche e soprattutto razionalmente, inserendola all’interno di una narrazione più ampia che coinvolge la sistematica violenza che affligge le giovani comunità afroamericane e la storia personale della sua famiglia. Ma ci tiene a farcelo sapere, “this album’s confessions of a man movin’ quick”, quest’album è diverso rispetto all’ultimo, sembra dirci. Siete di fronte alle confessioni di un uomo che sta cercando di andare avanti, per di più a grande velocità.
La strada per venire a patti con le cose che ci fanno stare male, per trovare un equilibrio, non è priva di intoppi. E infatti ci sono momenti in cui Saba ha delle ricadute, come in “Soldier”, dove è circondato proprio dai compagni della Pivot Gang. “Life is fighting while nobody notices/Die a man or live out like the soldiers/Life is filled with answers that make no sense/Live a man or die out like the soldiers” canta nel ritornello. Ma poi si lascia andare di nuovo, concludendo con un “If all of this can go bad/Then what’s the point of tryin’? /Go bad/Then what’s the point of it?”. Insomma sì, è complicato. È complicato sopravvivere a chi non c’è più e ancor più complicato è sopravvivere a noi stessi, a quello che quelle voragini ci hanno fatto diventare. Un giorno si lotta in silenzio come leoni, un altro si urla quasi senza motivo facendoci notare da tutti, un altro si è così prosciugati che arriviamo a pensare che nulla importa, meglio che tutto vada in malora. Lo dice il titolo dell’album: “Few Good Things”. Poche cose buone. Saba vuole cominciare a risalire e lo fa aggrappandosi a quel poco di buono che è tornato a vedere attorno a se, lo fa con maturità, il che vuol dire concedersi anche momenti di debolezza. Com’è noto, in psicologia l’elaborazione del lutto è divisa in cinque fasi: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Ecco sulla carta può anche essere tutto giusto, nella pratica ogni singola fase si accavalla all’altra e può anche capitare di pensare di essere arrivati all’accettazione e dover invece ricominciare d’accapo. “Few Good Things” è un piccolo capolavoro nel riuscire a prendere per mano l’ascoltatore, portandolo a zig zag in un vaso di Pandora di sentimenti e stati d’animo; rende in modo efficace la confusione imperante ma anche i grandi momenti di sconvolgente lucidità, le epifanie; alterna ottimismo e fasi di profondo sconforto. Come detto inoltre, Saba riesce a fare tutto senza chiudersi eccessivamente in se stesso, ma provando a tendere una mano verso l’esterno, a farsi seguire e capire.
In questo la musica gioca una parte sicuramente importante. “Few Good Things” è forse l’album più pop di Saba in questo senso. Ci sono le produzioni tra il jazz-hop e il lo-fi, ma anche melodie accattivanti, ritornelli che funzionano benissimo. Spesso le varie anime sposano le liriche, rinforzando i concetti. Saba canta molto più che in passato e lo fa anche bene, adagiandosi nel mix, sapendo dove spingere e dove tenersi, esplorando i suoi limiti senza che l’ascoltatore riesca ad accorgersene. Il feeling che ci trasmette la sua musica, come ha scritto in modo appropriato Pitchfork, gioca efficacemente su due opposti. Da una parte sembra essere tutto semplice, tutto fatto senza troppi pensieri, lo-fi appunto. Dall’altra invece le produzioni appaiono il frutto di un labor limae difficile da ignorare, estremamente cesellate e curate, quasi patinate. Insomma il suono riprende la dualità di cui è composto il lavoro anche dal punto di vista tematico e nonostante alcuni momenti un po’ deboli nell’ascolto d’insieme, il gioco funziona bene. Il risultato è un album che suona nostalgico e contemporaneo allo stesso tempo.
Un album che in parte riflette la matassa di suoni eterogenei che stanno uscendo da Chicago negli ultimi anni. Lato rap abbiamo avuto l’esplosione quasi contemporanea, anche se con diverse misure, di Chance The Rapper, Noname, Saba con la loro iper-sensibilità nelle liriche e le sonorità morbide. Negli ultimissimi anni è poi emersa con forza una componente molto intellettuale, dedicata soprattutto alla musica improvvisativa, rappresentata da quell’etichetta interessantissima che corrisponde al nome di International Anthem. Robert Barry su The Quietus si stupisce di quanto questi mondi comunichino fra loro, seppur non esplicitamente. Più condividendo un’intenzione comune “la cadenza generale dell’album, il ritmo, la sensazione di luce che sprigiona attraverso le fessure tra le varie note”. Sarà che Chicago è la “windy city”, la città ventosa; sarà che questo vento fa circolare le note senza ostacoli tra un blocco di palazzi e l’altro; che storicamente parliamo della città dove il blues ha trovato l’elettricità, dove Kanye West ha iniziato a conquistare il mondo. Da fuori non ci è dato saperlo, ma a Chicago succede qualcosa da sempre, e Saba prende parte alla storia della città a pieno titolo con un bell’album che segna un punto importante nella sua carriera e da cui sarà anche difficile smarcarsi, capire cosa fargli seguire. Noi non vediamo l’ora di scoprirlo, intanto ci godiamo “Few Good Things”.