“Prendiamo il titolo: Baduizm. [Erykah Badu] voleva che il progetto avesse un’identità intrigante per le persone, e che non fosse un semplice ‘Hey, ecco qui il mio bel faccino’, questo non era per niente da lei. Per lei era tutta questione di musica. Per questo ha voluto creare una cover che attirasse l’attenzione del pubblico.
All’epoca tutte le copertine dei dischi R&B volevano mostrare bellezza. Lei, invece, ha mostrato bellezza in un modo completamente nuovo”.
Guardando le immagini scattate dall’autore di queste parole, il fotografo haitiano-americano Marc Baptiste, c’è molto da stupirsi: quante tra le foto ipnotiche di Erykah Badu sarebbero potute finire sulla copertina del suo disco di debutto? Praticamente tutte. E invece, la foto prescelta è quella che forse chiunque di noi avrebbe scartato, sintomo del fatto che Erica Wright ha sempre visto qualcosa che pochi altri insieme a lei hanno avuto modo di vedere. Ed è così, con una visione nuova, unica, ma condivisa con alcuni prescelti tra le mura degli Electric Lady Studios di New York, che l’11 febbraio 1997 veniva alla luce Baduizm.
All’uscita del disco, il commento più ricorrente vedeva spesso la prima voce del nascente neo-soul accostata a quella di Billie Holiday, e in effetti è innegabile che qualcosa nell’emissione, nel timbro e nella dinamica vocale possa portare a un facile paragone. Eppure, se ancora oggi, dopo 25 anni, Baduizm ci parla ancora così chiaramente di così tante cose, il merito non è di certo di una brava cantante che aveva studiato Lady in Satin.
Il team di producer che sta dietro i 14 diamanti che compongono questo capolavoro vede in prima fila Ahmir Questlove, James Poyser e Leonard Hubbard dei The Roots. Com’è noto, il sophomore di Erykah Badu è precursore del linguaggio del collettivo Soulquarians, in cui qualche anno dopo la band n.1 di Philly avrebbe fatto da protagonista. Eppure, per Baduizm il contributo più rilevante dei The Roots arriva proprio in corner.
Il 1996 è appena finito, e con esso anche il disco, grazie al lavoro encomiabile di producer del calibro di Madukwu Chinwah e Richard Nichols. Era persino intervenuto Ron Carter, contrabbasso onnipresente in qualsiasi produzione che si rispetti, e qui protagonista con un suono distorto e un walking da paura in Drama. Eppure Erykah non è ancora soddisfatta. Così chiede alla produzione di fare un salto d’urgenza a Philadelphia poco prima di finalizzare il progetto: basta qualche giorno con i The Roots per impacchettare Sometimes e Other Side of The Game. Ancora una volta la visione di Erykah, contro tutti i pronostici, era quella più folle, ma era quella giusta.
C’è ancora una cosa che, oltre all’identità del progetto plasmata intorno alla visione di un personaggio, non ci permette di relegare Miss Lo Down Loretta Brown esclusivamente al ruolo di cantante: Erica Wright, infatti, è accreditata come producer in ben 4 tracce, su due delle quali si è occupata di apporre le batterie. “Don’t wanna hear no snare” non è solo una delle frasi che ricorrono su Rim Shot, ma un vero e proprio statement, legato alla ricerca esplicita di riferimenti ancestrali della tradizione africana. “Se il turbante era il mio marchio, allora le batterie, quelle africane, erano la mia colonna sonora”, ha commentato nel 2011, “le batterie sono tutto per me”.
Dopo un lavoro organico ed eternamente intatto come Baduizm, le mosse più recenti della doula più conosciuta di Dallas hanno spesso spiazzato, ultima fra tutte il mixtape But You Caint Use My Phone. Eppure, la lenta e omogenea evoluzione di Erykah Badu resta coerente con un personaggio che in ogni fase ha sempre avuto chiara la simbologia di cui farsi portavoce: nel 1997 era un passato viscerale e spirituale, oggi è un futuro distopico e mellifluo. E questo limbo in cui the analog girl in a digital world ci ha lasciato da qualche anno aumenta le probabilità che alla prossima mossa storceremo ancora il naso, per poi ricordarci ancora una volta che un’artista del suo calibro, contro ogni previsione, è sempre capace di fare la scelta giusta.